Cade oggi il ventennale dell´arresto di Totò Riina: un grande successo dello Stato che in un paese normale dovrebbe fornire l´occasione per ricordare che le forze della legalità non sono condannate sempre alla sconfitta. La cattura di Riina a meno di un anno da Capaci consolidò la riscossa antimafia successiva alle stragi. Dimostrò che Falcone, Borsellino, Chinnici e tanti altri non erano morti né soli né invano, e rilanciò lo scontro Stato-mafia su un livello ancora più alto. Solo due mesi dopo veniva rinviato a giudizio Giulio Andreotti sotto l´accusa di collaborazione con Cosa Nostra, la quale rispondeva con una seconda ondata di stragi.
Cosa sta accadendo invece, oggi, nel Paese? L´opinione pubblica è allo sbando, in preda a misteriologi e detrattori di ogni sorta, che rilanciano un´ipotesi campata in aria, senza alcuna prova a supporto, secondo la quale la cattura di Riina fu opera del suo concorrente ai vertici della mafia, Bernardo Provenzano, il quale avrebbe fatto arrivare ai carabinieri la soffiata decisiva per l´individuazione del nascondiglio del boss e della sua famiglia nella periferia di Palermo.
Provenzano, secondo i misteriologi, era stanco della pressione investigativa su Cosa Nostra, dissentiva dalla scelta stragista di Riina, e stava negoziando con lo Stato la vanificazione della legislazione antimafia in cambio della cessazione degli attentati e del ritorno alle vecchie tattiche di collusione e complicità. L'arresto di Riina e la mancata perquisizione del suo covo, lungi dall´essere un limpido successo delle forze dell´ordine, furono uno squallido episodio di "appeasement" istituzionale.
La relazione Pisanu colpisce nel segno. Decostruisce punto per punto l'ipotesi accusatoria dei pm palermitani sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia provando linesistenza del versante politico della stessa tramite una convincente sfilza di date, fatti e testimonianze.
Il documento si limita a questo. Il suo merito principale è la dimostrazione dell'inverosimiglianza di una connection Scalfaro-Mancino-Conso che tratta un armistizio con Cosa Nostra in cambio del suo abbandono della strategia terroristica culminata con Capaci.
Ma la relazione Pisanu ha anche dei difetti. Il suo limite maggiore è la mancata ricostruzione del contesto politico di quel terribile biennio '92-'93.
Secondo Berlusconi il governo Monti ha fatto aumentare la criminalità, come dimostrato dagli ultimi dati del Viminale apparsi qualche giorno fa sul “Corriere della sera”.
Niente di più falso. E non solo perché è sempre sbagliato attribuire oscillazioni brevi dei tassi di violenza a questa o quella gestione politica. Ma anche perché quei dati non «dicono»ciò. Ho ottenuto dal Viminale le cifre sulle denunce di reato ricevute dalle forze dell’ordine italiane nel primo semestre 2012 comparate con quelle dell’anno precedente. Ed ho riscontrato esattamente l’opposto, e cioè la conferma della tendenza al declino della criminalità più grave che è all’opera in Italia e in Europa da circa venti anni.
I fan di Antonio Ingroia sono allarmati. I cronisti che negli ultimi anni hanno visto il loro status lievitare sulle, chiamamole così, indiscrezioni della Procura di Palermo fino al punto da fare invocare la separazione anche delle loro carriere da quelle degli inquirenti, non capiscono bene cosa stia succedendo. Altri prendono le distanze dagli attacchi a testa bassa che il loro ex eroe sferra contro l'establishment istituzionale e contro l'antimafia responsabile e legalitaria che l’ha finora tollerato. Ma pochi si rendono conto della coerenza delle posizioni espresse dal pm siciliano. Si tratta in realtà di una narrativa politica organica da considerare come tale, e da non liquidare sommariamente. Dopo avere concluso un’inchiesta che accusa i vertici "puliti" dello Stato - quelli del 1992-93 guidati da Oscar Luigi Scalfaro - di avere condotto una sordida trattativa con Cosa Nostra nello stesso momento in cui dichiaravano di volerla distruggere, trattativa che sarebbe costata addirittura la vita di Borsellino, Ingroia ha alzato il tiro. Ha accusato la Corte Costituzionale di avere emesso una sentenza politica dandogli torto in un conflitto con il Presidente della Repubblica. Napolitano è stato accusato a sua volta dalla muta giornalistica pro-Ingroia di coprire i reati commessi da un suo sodale della Prima Repubblica, Nicola Mancino, ministro dell’Interno durante la cosiddetta trattativa. Che sarebbe perciò l'atto fondante di una seconda Repubblica nata sulla menzogna e sul compromesso tra Berlusconi e la sinistra 'normale'.
Leggo e rileggo carte giudiziarie da più di trent’anni e devo confessare che poche volte mi è capitato tra le mani un documento così scadente come la memoria dei PM di Palermo sulla cosiddetta trattativa stato-mafia del 1991-92. Non si tratta in effetti di un documento giudiziario, ma di una tirata politica di 26 pagine, che come tale non contiene né indizi né prove.
Salvo considerare prove le dichiarazioni di tre pentiti, gli accordi tra un confidente mafioso e un paio di carabinieri spregiudicati, oppure indizi le perplessità espresse da varie autorità del tempo sulla legge 41bis, il carcere duro per i mafiosi.
Nell’ inchiesta sulla presunta trattativa, le ovvie incertezze nel ricordare episodi e date di vent’anni fa da parte di testimoni incensurati sono diventate false testimonianze. E sono state ritenute invece credibili le dettagliatissime - e proprio per questo sospettabilissime - deposizioni su fatti della stessa epoca fornite da impostori da quattro soldi come Massimo Ciancimino. O da una sfilza di ex-killer, (Spatuzza and company) che in quanto tali non potevano sedere al tavolo dei negoziati ed hanno perciò parlato per sentito dire.
Chi conosce anche superficialmente queste materie non può non restare sconcertato dalla pressochè completa assenza di riscontri alle dichiarazioni delle “fonti” di cui sopra. Se non viene corroborata da verifiche solide, raccolte con metodi rigorosi, infatti, la parola di un pentito non vale nulla. E quella di un testimone palesemente falso, imputato di calunnia nel medesimo procedimento, vale ancora meno.
Avevano accettato di investire nell’innovazione tecnologica realizzando progetti di importi tra 50 mila euro e un milione, ma con la garanzia che avrebbero incassato gli incentivi previsti da un bando regionale indetto nel 2008 dalla Regione per l’accesso alle agevolazioni per gli aiuti alle imprese e sviluppo insediamenti produttivi, pari a 80 milioni e finanziati in parte dalla Ue e in parte dal Por Campania 2007-2013. Qualcosa, però, non è andato come doveva, tanto che, a tre anni di distanza, invece dei contributi previsti, 159 imprenditori si sono visti recapitare una comunicazione con la quale la Regione annuncia l’avvio di procedimenti amministrativi per la revoca degli incentivi erogati con decreto dirigenziale numero 674 del 13 luglio 2009. Ma la sorpresa più grande è emersa quando il legale di Carlo D’Ambrosio, proprietario della Ecomac di Scafati (tra le ditte in graduatoria), dopo l’ennesima risposta evasiva degli uffici regionali sulle motivazioni della revoca dei finanziamenti, ha interpellato direttamente la Ue tramite l’europarlamentare Pino Arlacchi che ha successivamente presentato un’interrogazione.
Come per molti altri Paesi ex comunisti, la più grande sfida per la Romania dalla caduta della Cortina di ferro in poi è stata quella di stabilire e rispettare i princìpi dello Stato di diritto. Benché la democrazia romena non abbia ancora raggiunto gli standard auspicati da molti romeni, bisogna riconoscere che nell’ultimo periodo si è verificato un salto di qualità estremamente positivo.
Questa primavera, la nuova coalizione social-democratica al governo è riuscita a sbarazzarsi di uno degli accordi finanziari più controversi di tutta l’Unione Europea. Mi riferisco allo schema di trading dell’energia denunciato dalla Commissione europea per diversi anni, senza che alcun precedente governo riuscisse a produrre fatti concreti al di là della solita retorica.
Come conseguenza del malgoverno e della corruzione associati a questo schema di trading intermediato, la Romania ha accumulato una perdita di oltre un miliardo di euro. Una cifra considerevole, sottratta dalle tasche dei contribuenti. Uno dei primi successi ottenuti dal primo ministro Victor Ponta dopo la vittoria elettorale è consistito proprio nella eliminazione di questa frode.
di David Carretta BRUXELLES. «Un grande progetto di esplosione turistica della città». Il sindaco Vincenzo De Luca ieri ha presentato al Parlamento europeo il «Waterfront di Salerno», l'iniziativa con cui intende rilanciare la «trasformazione urbana e la rinascita produttiva della città». C'è la necessità di «far conoscere» in Europa ciò che stiamo facendo, dice De Luca. Ma il viaggio a Bruxelles ha «un obiettivo preciso: intercettare risorse, per lo meno nella misura di settanta milioni di euro, per completare il nostro fronte-mare».
All'incontro organizzato dall'europarlamentare Pino Arlacchi, e a cui ha partecipato il vicepresidente del Parlamento Europeo Gianni Pittella, l'interesse c'è. Davanti a deputati, funzionari della Commissione e lobbisti, De Luca ha mostrato ciò che dovrebbe essere realizzato nei due chilometri che andranno dalla futura piazza della Libertà a piazza della Concordia. I 70 milioni servono per le infrastrutture, come l'interramento del lungomare. Il sindaco parla di altri 250 milioni di investimento pubblico-privato, che dovrebbe creare 5.500 posti di lavoro per tre anni. Il Waterfront e l'economia del mare sono «un progetto vitale per Salerno. Altrimenti di cosa vive la città?» dice De Luca.
SALERNO — Servono 70 milioni di euro per riqualificare il fronte di mare. Il sindaco Vincenzo De Luca ha illustrato i suoi conti a Bruxelles, durante una serie di incontri favoriti dall'europarlamentare Pino Arlacchi. Nella prima giornata, martedì, ha incontrato alcuni dirigenti della Commissione europea, poi il presidente del Gruppo socialista europeo Hannes Swoboda e l'ambasciatore italiano Ferdinando Nelli Feroci. Il sindaco, tra l'altro, ha evidenziato la necessità di rafforzare il ruolo dei Comuni nei processi di programmazione e spesa delle risorse europee, mediante una delega diretta di gestione. Concetti ripresi nella seconda giornata, ieri, durante un convegno organizzato da Arlacchi, quando ha potuto dilungarsi sul fronte-mare, progetto complesso che gli sta molto a cuore.
Quanto accade oggi in Siria sembra contraddire il detto che la storia non si ripete se non sotto forma di farsa. Un'originaria tragedia accaduta in Afghanistan trent’anni fa si sta ripetendo sotto forma di una tragedia ancora più grande.
Sappiamo infatti da fonti ben informate che la maggior parte delle armi inviate in Siria dagli Usa e dai loro alleati allo scopo di rovesciare il regime di Bashar Assad stanno finendo nelle mani di estremisti islamici del tutto simili ai mujaheddin afghani degli anni ’80.
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Non sono una persona complicata. La mia vita pubblica ruota intorno a due cose: il tentativo di capire ciò che mi circonda, da sociologo, e il tentativo di costruire un mondo più decente, da intellettuale e militante politico.
L'Antidiplomatico, 25 Aprile 2020
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L'Antidiplomatico, 24 Aprile 2020
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