Il doppio bluff di Juan Guaidò nella partita tra Usa e Maduro

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Il doppio bluff di Juan Guaidò nella partita tra Usa e Maduro

di Pino Arlacchi | 3 maggio 2019

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2019/05/03/il-doppio-bluff-di-juan-guaido-nella-partita-tra-usa-e-maduro/5150545/?fbclid=IwAR3Isi3sL0jOi9DsinQx-MRRJTsUTl1f5OqJZkxjvPm5GEDxrNHelBjgoiY

 

Siamo tutti Guaidó. Ma per quale ragione? Devo confessare che, visti gli ultimi sviluppi, sono dilaniato da un dilemma: siamo proprio sicuri che Guaidó abbia lavorato per gli Stati Uniti? E se lo abbia fatto invece per Maduro? O per tutti e due? Il cruccio non è retorico. Se si risale con calma lungo la catena degli eventi degli ultimi tre mesi, il giudizio sul personaggio si biforca: le azioni compiute da Guaidó contro il governo di Caracas sono quelle del solito “combattente della libertà” stile Berlusconi della prima ora allevato dall’intelligence Usa e gettato nella scena politica del Venezuela non appena in grado di camminare. Ma se riflettiamo sui risultati effettivi delle sue azioni, il dubbio che si tratti di un diabolico manufatto chavista rifilato alla Cia con lo scopo ultimo di giocare per Maduro diventa davvero molto intenso.

 

Esaminiamo allora le tre tappe della breve vita di Juan Guaidó, dalla sua nascita con l’autoproclamazione a presidente nel gennaio passato, al suo mesto trapasso del 30 aprile su un cavalcavia di Caracas. Il ruspante ingegnere si presenta davanti alla congrega Bolton-Rubio-Pompeo come una specie di Fidel Castro della destra in grado di infiammare le piazze e di condurle alla conquista del palazzo presidenziale con la complicità di gran parte delle forze armate, ormai stanche della tirannia chavista e decise a battersi… per la democrazia. A nessuno degli strateghi di Washington viene il sospetto che si tratti di un mitomane in preda a delirio di onnipotenza, e invece di sottoporlo alla macchina della verità o invitarlo a fornire prove dei suoi poteri carismatici, credono alle sue balle, lo incoraggiano ad autoproclamarsi presidente e lo riconoscono senza indugio come tale alla fine di gennaio.

Gli strateghi sono certi che il resto del mondo non farà molte storie sulle credenziali di Guaidó e accetterà in massa il loro invito a riconoscerlo come nuovo presidente del Venezuela. Il trio trumpiano si siede allora in prima fila, popcorn in mano, e attende le folle osannanti, la caduta della dittatura e la pioggia di approvazione universale verso l’autoproclamato. Ma le folle non si presentano, l’esercito resta leale a Maduro e solo 50 su 192 Paesi membri dell’Onu – gli stretti alleati e clienti degli Usa – accolgono l’invito a incoronare il novello Castro-Bolivar. Il flop è clamoroso sotto un triplice profilo: come prova della reale consistenza di Guaidó, come test della residua influenza globale del potere americano, e come dimostrazione del consenso di Maduro presso esercito e popolazione. Ma il fiasco viene fatto passare come una sentenza di primo grado, e si stabilisce che il giudizio di appello avvenga il 23 febbraio, al confine con la Colombia. Con la scusa di far entrare in Venezuela, con le buone o con le cattive, alcuni camion di aiuti umanitari americani, Guaidó e i suoi avrebbero dovuto far confluire sul posto alcune centinaia di migliaia di persone con le quali avrebbero soverchiato le forze governative schierate per impedire la provocazione, per poi marciare su Caracas tra ali di folle benedicenti e uno scoppiettio di insurrezioni spontanee.

Ma quando si dice la sfortuna. Anche in questo caso, all’appuntamento non si presenta quasi nessuno e l’evento viene condannato dall’Onu, dalla Croce Rossa e dalle agenzie umanitarie come una violazione del canone fondamentale della non politicizzazione dell’aiuto umanitario. Alcune bande di seguaci di Guaidó vengono rovinosamente fotografate dal New York Times mentre lanciano molotov contro i convogli di aiuti allo scopo di far ricadere la colpa sul governo di Caracas.

Il doppio fiasco dimostra che il cambio di regime è una strada impraticabile e mette a nudo l’impostura del “cocco” della Cia, ma ormai è troppo tardi per buttarlo a mare e per impedirgli di continuare nella sua opera di consolidamento di fatto dell’odiato regime comunista.

Gli “Strateghi Supremi” passano allora a una più dimessa linea di riduzione del danno Guaidó. Lo invitano a stare calmo e aspettare un po’. Trump ha introdotto sanzioni letali che faranno cadere Maduro in poche settimane. E si sarebbe spacciato Guaidó come causa principale della débâcle.

Ma “Il liberatore” non abbocca. Deve proseguire la sua missione a favore della democrazia venezuelana (a questo punto quale? Quella di Bolton/Taiani o quella di Maduro?), e chiede ai suoi ormai costernati sponsor un ricorso in Cassazione. Che consiste nel simil golpe tragicomico del 30 aprile. Azione comunque temeraria e resa incruenta dall’astensione del governo dall’uso della forza. Ma azione rivelatasi infine un assist decisivo a Maduro e un finale di partita per il suo promotore.

In conclusione, tutti noi, combattenti per la democrazia altrui, maduristi e trumpiani, dobbiamo molto al defunto liberatore del Venezuela. Siamo tutti Guaidó. Il sacrificio di questa stella cadente della libertà consente oggi a Maduro di aprire all’opposizione interna dotata di cervello e oscurata finora dagli eversori. Apertura che si estende alle proposte di mediazione e di soluzione democratica della crisi avanzate da vari soggetti internazionali, tra cui l’Italia e il Vaticano.

 
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