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Il mio lavoro all'ONU

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Dieci anni (non) perduti. La strategia globale di eliminazione delle coltivazioni  illecite nel 2008

Pino Arlacchi

Roma, giugno 2008

E' tempo di bilanci. Sono stato Vicesegretario Generale delle Nazioni Unite ed ho diretto il Programma antidroga dell'ONU dal 1997 al 2002. La mia gestione si è svolta  all'insegna della strategia di eliminazione delle colture di oppio e di coca dal pianeta entro il 2008. Come è nata l'idea, e come siamo arrivati a farla sottoscrivere dall'Assemblea Generale dell'ONU nel giugno del 1998? Quali sono stati gli ostacoli alla sua approvazione, e cosa è successo dopo, nei paesi coltivatori e nel mercato mondiale dei narcotici?

Nel 1997 avevo dietro le spalle quasi venti anni di studio del problema droga. Le ricerche che avevo fatto mi avevano portato a poco a poco lungo una rotta di collisione con le idee  prevalenti sul tema. Ero arrivato a convincermi, cioè, di una delle cose più "politically incorrect" che si potessero concepire. In poche parole, mi ero persuaso che il pessimismo imperante sulle strategie antidroga non aveva base nei fatti, e che i tempi erano maturi per un attacco a tutto campo. Mi ero convinto infatti che era possibile ridurre ai minimi termini produzione, traffico e consumo di eroina e cocaina. Il tutto entro un arco di tempo relativamente breve. Una decina di anni

Perché i tempi erano maturi? E cosa mi autorizzava a ritenere che il problema delle droghe pesanti fosse un gigante dai piedi di argilla, che la comunità internazionale poteva far stramazzare al suolo senza tanti complimenti se animata da convinzioni e piani adeguati?

Un argomento chiave l'avevo tratto dalla globalizzazione del mercato degli stupefacenti. Essa aveva posto fine alla contrapposizione Nord-Sud, tra paesi ricchi consumatori e paesi poveri produttori di oppio e coca. Ero stato consulente delle Nazioni Unite dagli anni '80 in poi, assieme al mio grande amico Giovanni Falcone, ed avevo visto con i miei occhi la rovinosa frattura Nord-Sud che paralizzava ogni serio piano di azione antidroga. Avevo assistito alle riunioni della Commissione Narcotici, piene di accuse reciproche e di veleni.

"Le droghe ci sono perché voi permettete ai contadini di produrle, ed ai vostri trafficanti di esportarle".

"No. Se non ci fossero i vostri consumatori, ed i vostri prezzi così alti, non ci sarebbero le produzioni. Perché da noi non esiste il consumo di massa. E le mafie più potenti agiscono sul vostro territorio, e riciclano i soldi della droga nelle vostre banche".

Queste erano le tipiche recriminazioni che impedivano all'azione internazionale di andare oltre il rispetto formale delle clausole dei Trattati sugli stupefacenti. Ma già verso l'inizio degli anni '90 lo scontro era cessato, lasciando il posto ad una voglia di cooperazione Nord-Sud ed Est-Ovest che cresceva in ogni sede.

La ragione del cambiamento era semplice. I mercati di consumo si erano universalizzati. Da un lato vari paesi produttori prima immuni dal consumo di massa, soprattutto asiatici, erano caduti vittima uno dopo l'altro di epidemie di tossicodipendenza di proporzioni bibliche. Dall'altro lato, i paesi occidentali avevano iniziato ad esportare droghe chimiche nel Terzo Mondo, "ricambiando il favore" ai produttori di sostanze naturali. Non era più possibile dichiarare colpevolezze ed innocenze a basso prezzo. Tutti erano diventati contemporaneamente vittime e carnefici del sistema mondiale della droga.

La mia impressione era, inoltre, che l'unificazione dei mercati avesse toccato il culmine. Il dilagare dell'eroinomania nel Terzo Mondo e la diffusione della cocaina in Europa erano parte dell'ultima ondata globalizzante. Il futuro di questi mercati "maturi" era la stabilità o il declino.

Perché non intervenire per accelerare il decadimento? Perché non cogliere l'occasione della comunanza di vedute che si era creata tra i membri della comunità internazionale?

Quando dico mercato "maturo" intendo un contesto i cui settori-guida di un tempo non trainano più il resto. Ero certo che, guardando al di là della spessa cortina di ignoranza e pregiudizio che avvolgeva l'argomento, fosse possibile intravedere una chiara linea di tendenza: la  crescita del consumo di droghe pesanti nei paesi ricchi si era fermata. I consumatori invecchiavano ed i prezzi scendevano per eccesso di offerta pressoché dovunque.

Quasi nessuno, neppure nel mondo degli specialisti, si era accorto del costante declino dei prezzi di eroina e cocaina nei mercati ricchi. Lungo gli anni '80 e '90, essi si erano più che dimezzati. Il prezzo all'ingrosso dell'eroina in Europa era sceso da 250mila dollari al chilo nel 1987 a 100mila nel 1997: meno 60%. Nello stesso arco di tempo, il prezzo della cocaina europea era disceso del 45%, mentre negli USA il valore dell'eroina era crollato, scendendo del 70% , e quello della cocaina del 50%. Ciò non poteva essere attribuito ad un fattore passeggero, come lo sgonfiamento della "bolla" dei prezzi creatasi tra la fine degli anni '70 ed i primi anni '80 nel maggiore mercato dell'epoca, quello americano. In quegli anni, l'eliminazione dell'oppio turco e gli effetti dello smantellamento della "French Connection" avevano fatto andare alle stelle il prezzo dell'eroina.

Il declino era avvenuto anche nel mercato della cocaina, e si era manifestato anche in Europa. Ero stato testimone diretto di questo trend, avendo osservato, assieme al mio compagno di ricerche Roger Lewis, le trasformazioni dei mercati italiani degli stupefacenti lungo gli anni '80 nel corso una serie di indagini sul campo. Piano piano, i prezzi scendevano dappertutto, e con essi fatturato e profitti. Senza che nessuno se ne accorgesse e traesse le conseguenze.

Anche per questo, la differenza tra le dimensioni effettive dei mercati illeciti del tempo da un lato, e quanto "sparato" ogni giorno dai titoli dei giornali dall'altro, era diventata impressionante. La provincia di Verona ci chiese nel 1987 di compiere un indagine sul mercato cittadino. La città di Giuletta e Romeo era diventata uno dei mercati criminali più fiorenti del paese, e gli amministratori erano preoccupati per la sua reputazione di "Bangkok italiana" che danneggiava il turismo. Roger fece una accurata ricognizione dei prezzi in strada dell'eroina, trascorrendo intere giornate con i loquaci tossici veronesi. Arrivammo ad una stima del fatturato finale della droga che era 10-20 volte inferiore a quella citata dai media  e dalle autorità.

Contemporaneamente, la purezza della droga venduta in strada, un indicatore fondamentale delle politiche di vendita degli spacciatori rispetto alla domanda, era salita negli USA dal 4% nel 1985 fino al 37% nel 1997.

Non era così quindici anni prima. Quando andai a New York con Giovanni Falcone nel 1982 e visitammo l'ufficio del Procuratore Distrettuale dei narcotici, Sterling Johnson, egli ci parlò di una dipendenza dall'eroina che era ormai diventata quasi psicologica. I tossici newyorkesi ne trovavano ormai pochissima nelle bustine che compravano in strada. I venditori al minuto la tagliavano con sostanze inerti fino al 97-98%. I prezzi della droga erano altissimi. C'era già in scena la "Sicilian Connection", ed i mafiosi di Palermo vendevano l'eroina prodotta nei loro laboratori a 250mila dollari al chilo nei mercati della costa orientale. Una cifra smisurata, pari  a 480mila dollari del 1997 e 600mila di oggi.

Negli anni successivi la purezza della droga non aveva fatto altro che risalire, e i prezzi erano scesi, indicando un mercato sempre più favorevole ai consumatori. A metà degli anni '90 e nei paesi ricchi, l'eccesso di domanda del passato, con i suoi alti prezzi, la bassa purezza e l'espansione del numero dei consumatori, cominciava ad essere un ricordo sbiadito.

L'offerta prevaleva ora sulla domanda. I cocainomani americani erano diminuiti, nella stessa decade, di oltre il 60%, e in Europa l'età media degli eroinomani non aveva fatto altro che salire dal 1980-82 in poi.

Mi sono soffermato un po'su questo argomento perché ho subito molti attacchi sulla realisticità del Piano Globale che ho lanciato subito dopo il mio arrivo all'ONU. Alcuni hanno pensato che mi fossi montato la testa, o che avessi perso il contatto con la realtà. Ammetto pure la disconnessione con la realtà. Ma di quale realtà stiamo parlando?

Di quella superficiale, che appare ai politici o agli ideologi che lucrano sulla demagogia, e dalla quale ero in effetti disconnesso, o quella più profonda, che si conosce solo con la dura disciplina intellettuale e che consente di guardare oltre la siepe?

Per me il lancio del Piano non era altro che un passo dovuto. Il passo che qualunque studioso si fosse trovato nella mia situazione avrebbe compiuto, come logica conseguenza delle proprie analisi. Aveva scritto addirittura un libro, nel 1985, nel quale esponevo le mie riflessioni sulla  globalizzazione dei mercati illeciti in pieno svolgimento. Si chiamava "droga e grande criminalità in Italia e nel mondo". Ma era un volumetto smilzo, pubblicato da un piccolo editore siciliano, che passò inosservato.

Un'altra fondamentale ragione  che mi aveva portato a pensare che era arrivato il tempo di parlare di eliminazione delle colture illecite stava nei cambiamenti del contesto politico mondiale avvenuti dopo la fine della guerra fredda. Il crollo del comunismo aveva sgombrato il campo, in un certo senso,  per le politiche internazionali contro la criminalità organizzata ed i narcotici.

Il contrasto delle mafie e dei traffici di droga era stato costantemente subordinato, dopo la seconda guerra mondiale, alla lotta contro il comunismo. Che si trattasse della Sicilia, del Laos o del Pakistan poco importava. Se per combattere il pericolo rosso occorreva accettare come compagni di strada  - in inglese si dice addirittura  "bedfellows", "compagni di letto" – banditi, trafficanti, mercenari, politici corrotti e semplici delinquenti, bisognava farlo. Il bene supremo della libertà e della democrazia richiedeva talvolta dei sacrifici.
L'obiezione che il sacrificio fosse necessario solo in circostanze eccezionali, e che nella maggior parte delle situazioni l'anticomunismo fosse una bandiera di comodo per interessi criminali che danneggiavano proprio i valori che si volevano difendere, non era mai riuscita a prevalere.

Quando si era trattato di scegliere tra il bandito Giuliano, i trafficanti del Triangolo d'oro da una parte, ed i contadini, gli operai e gli intellettuali "rossi" dall'altra, i primi erano stati sempre favoriti in nome della priorità anticomunista.

Era il prezzo da pagare, secondo alcuni, per la libertà. Lungo gli anni '60 e '70, la CIA aveva scelto di ignorare il commercio della droga dei guerriglieri anticomunisti nel Sudest asiatico. Anzi, in certi casi lo aveva incoraggiato e protetto dall'azione della DEA e dalle critiche del Congresso. Negli anni '80, i servizi di sicurezza USA avevano tollerato la collusione tra trafficanti e mujaheddin in Afghanistan. La priorità era la lotta contro i russi che avevano invaso il paese.

Questa impunità consentiva ai trafficanti di inondare l'Occidente di droghe e di sostenere narco-governi e dittature in Asia e in America Latina. A nulla erano valsi il disagio e la protesta di diplomatici, parlamentari, giornalisti, studiosi e governi esteri verso questo singolare modo di promuovere la democrazia. Secondo molti di loro - anzi, secondo molti di noi - ci si poteva opporre al comunismo senza distruggere la credibilità delle politiche antidroga e senza favorire la criminalità, ma fino al 1989 la situazione era rimasta bloccata.

La lotta contro i mercati  criminali era figlia di un Dio minore, ma all'interno dei singoli paesi, sotto la pelle della guerra fredda, le sue potenzialità erano comunque cresciute. Rimossa ora l'ipoteca principale, era possibile attuare interventi efficaci. C'era il caso del Pakistan, e cioè del maggiore produttore mondiale di oppio degli anni '80. Fino a che l'alibi del pericolo comunista nel vicino Afghanistan ha consentito all'asse CIA-servizi segreti pakistani di coprire i traffici dei mujaheddin, non c'è stato nulla da fare. Oltre ai finanziamenti e alle armi, occorreva dare ai combattenti per la libertà un lasciapassare per il traffico e la coltivazione dell'oppio in Pakistan, nelle zone di confine con l'Afghanistan. Ma non appena i russi hanno iniziato a ritirarsi dall'Afghanistan, e il sostegno ai trafficanti si è progressivamente affievolito, gli interventi della comunità internazionale sulle coltivazioni di papavero hanno potuto dispiegare la propria forza: in dieci anni (1989-99) e con soli 200 milioni di dollari si è passati, in Pakistan, da 800 a 9 tonnellate di produzione di oppio.

Nel momento in cui ho lanciato il Piano, ero convinto che non si trattasse solo di sfruttare lo spazio di azione creatosi nel teatro globale dopo il crollo del Muro di Berlino. Si poteva fare di più. Criminalità, droga e traffici illeciti erano minacce alla sicurezza umana contro le quali era adesso possibile mobilitare  risorse prima usate per combattere la guerra fredda.  Dai satelliti alle tecnologie dell'informazione.

I tempi erano maturi. Anche perché nel sistema internazionale della metà degli anni '90 non c'erano ostacoli insormontabili di altro genere ad un progetto di abolizione delle droghe naturali. Non c'erano più stati che traessero risorse essenziali per la loro sopravvivenza o il loro benessere dalle economie illecite.
Avevo studiato a fondo l'esempio della maggiore narco-economia della storia, l'Inghilterra dell'Ottocento, il cui impero globale riposava sul controllo del "libero" commercio di oppio tra l'India e la Cina. Conoscevo i lavori del grande sinologo John Fairbank, che aveva definito il traffico inglese dell'oppio "il più duraturo e sistematico crimine internazionale dell'epoca moderna".  Gli inglesi avevano venduto oppio ai cinesi per tutto l'Ottocento e fino al 1917, incuranti delle proteste umanitarie in patria e di quelle del governo cinese che chiedevano la cessazione dell'infame commercio.

E' fuor di dubbio che molti cittadini britannici, e gli stessi protagonisti dell'affare, fossero consapevoli dell'immoralità di quel commercio, e dei danni che l'oppio provocava alla salute degli assuntori. Anche se i processi bio-chimici della dipendenza non erano ancora noti, si era perfettamente al corrente che l'oppio provocava assuefazione e che era una sostanza molto nociva.

Ricerche successive a Fairbank hanno mostrato come senza l'oppio, e senza il flusso di lingotti di argento dalla Cina alle banche londinesi, l'impero globale britannico non sarebbe stato immaginabile. Le entrate assicurate dal cartello della droga consentivano all'Inghilterra di spuntare quel vantaggio competitivo sulle potenze concorrenti che la sua modesta popolazione e le sue limitate risorse naturali non gli avrebbero altrimenti permesso.

La droga era parte fondamentale degli interessi nazionali della Gran Bretagna. Tanto è vero che essa ha combattuto due guerre contro la Cina – nel 1837 e nel 1856 -  proprio sulla questione della tutela del commercio di oppio. Le guerre furono vinte entrambe dall'Inghilterra, e il Trattato di Tianjin che concluse la seconda guerra dell'oppio costrinse il governo cinese a legalizzarne il commercio.

Il consumo dell'oppio debilitò generazioni di cinesi, e l'Ottocento viene ancora oggi ricordato in Cina come il "secolo della vergogna". Ma nel nuovo secolo, con la nascita e la crescita del sistema internazionale di controllo dei narcotici, non ci sono stati più esempi analoghi.

Non ero convinto, inoltre, che nel Terzo Mondo ci fossero ancora in giro i narco-governi degli anni '80. Il blocco di potere intorno alle droghe non mi sembrava più così saldo  da condizionare il comportamento dei governi in Asia ed America Latina.

So che sto affermando una cosa molto audace, ma ero stato in Sudamerica nel 1991, su invito del Dipartimento di Stato, ed avevo trovato una situazione molto diversa dalla catastrofe descritta dai media internazionali a proposito di droga e mafia. Quel soggiorno aveva influito molto sulle mie idee circa le chances di combattere efficacemente questi mali su scala globale.

In Peru e Bolivia si susseguivano ancora ministri e Presidenti collegati al malaffare e alla coca, ma erano molto cresciute anche le forze di opposizione. I cartelli criminali più famosi erano stati in buona parte smantellati lungo gli anni '80.

Avevo visitato la Colombia. Nel 1984 era caduto sotto i colpi dei "sicarios" di Medellin il ministro della Giustizia Lara Bonilla, e negli anni successivi erano stati assassinati il Procuratore Generale dello Stato, e 4 candidati alla Presidenza, nonché 300 magistrati e un paio di migliaia di soldati ed agenti di polizia.

L'establishment colombiano si era spaventato, ed aveva reagito con una durezza inaspettata. Il governo aveva dichiarato lo stato d'assedio ed aveva firmato un trattato di estradizione con gli Stati Uniti che consentiva di inviarvi qualunque trafficante che venisse arrestato.

I Presidenti Barcos e Gaviria avevano lanciato una campagna antimafia a tutto campo, che costava il 10% del bilancio dello stato. Essa aveva prodotto 22mila arresti, la disarticolazione pressochè completa del cartello di Medellin (i cui capi erano stati tutti arrestati, uccisi o estradati negli USA), la distruzione di 4.200 laboratori illeciti e il sequestro di una quantità immensa di droga.

Avevo fatta tappa presso le università locali, dove fervevano gli studi sulla sociologia del narcotraffico e sull'economia delle droghe. Trovai un ambiente familiare. Anche qui, il gap tra le cifre reali e quanto riportato dai media era molto ampio. Le dimensioni del fatturato e dei profitti dell'industria della cocaina erano molto pìù contenute di quanto tutti avevano creduto. Gli studi più autorevoli stimavano in 5-6 miliardi di dollari all'anno i profitti netti realizzati in media dai narcotrafficanti latino-americani dall'inizio degli anni '80 al 1991. La maggior parte di questi profitti non rientravano nelle economie dei paesi di origine ma rimanevano depositati nei paradisi fiscali dei Caraibi oppure venivano investiti nelle zone più ricche dell'Occidente e dell'Asia.

La valutazione delle rimesse dei narcotrafficanti nelle economie dei tre principali paesi produttori era di 1,5-2 miliardi di dollari all'anno, il 50-60% dei quali rientravano in Colombia ed il resto in Peru e in Bolivia.  Pur trattandosi di  frazioni ridotte delle cifre sparate da commentatori disinformati, tali valori non erano da sottovalutare se posti in relazione alla bilancia commerciale di paesi poveri come quelli andini.

Ma questi dati si riferivano agli anni '80. Nel corso degli anni '90 questi valori erano diminuiti, e in nessuno dei tre paesi produttori di coca la percentuale dell'economia illecita aveva mai superato un paio di punti del PIL nazionale.

Avevo pubblicato dati e notizie del mio soggiorno su "La Repubblica", ed avevo concluso che, in conseguenza della contenuta incidenza dell'economia criminale e del fenomeno dei narco-governi,  "lo spazio per le politiche di riconversione produttiva delle zone di coltivazione della materia prima è in realtà molto ampio, e molto meno oneroso di quanto si immagini… Alcuni studi recenti…mostrano come un piano globale di sviluppo alternativo di tale economia sia perfettamente alla portata delle risorse che la comunità internazionale è in grado di mobilitare". Sei anni dopo, nel 1997, avrei tentato di passare all'azione, costruendo l'attacco globale.

Per il successo del Piano di eliminazione delle colture illecite era necessario mettere in campo una vasta campagna di comunicazione su alcuni macro-argomenti ignorati non solo dal largo pubblico ma anche dalla maggioranza degli studiosi. I macro-argomenti erano tre, ed erano più o meno l'opposto di quanto molti pensavano (e pensano) in materia di droga:

1) La produzione mondiale di oppio e coca era condannata dalla storia. Si era andata restringendo a pochi paesi a causa del successo delle politiche di sviluppo alternativo e di azzeramento delle coltivazioni illecite;
2) L'obiettivo dell'eliminazione delle colture era realistico, si poteva raggiungere in un decennio, e costava pure molto poco.
3) Non c'era bisogno, quindi, di smantellare il sistema internazionale di controllo e liberalizzare. Bastava estendere al resto del mondo quanto fatto in Europa. Occorreva universalizzare il regime europeo di rispetto dei diritti umani dei consumatori e di parallela, intransigente lotta alle mafie dei trafficanti.

Questi concetti erano agevolmente dimostrabili, e spostavano il discorso su una dimensione diversa da quella, troppo angusta ed ideologica, del dibattito su legalizzazione e proibizionismo. Non aveva senso dividersi tra fautori della distribuzione legale degli stupefacenti da un lato, e sostenitori della repressione penale dall'altro. Si poteva essere a favore della distribuzione controllata restando proibizionisti in tema di traffico e produzione. I Trattati sulle droghe non criminalizzano i consumatori, e lasciano liberi i paesi firmatari di adottare le politiche di riduzione della domanda che ritengono più opportune. Perché esasperare la divisione tra chi vuole vietare e chi vuole permettere?

Bastava osservare con animo sgombro da pregiudizi i regimi legali vigenti in Occidente per rendersi conto della inutilità di questa spaccatura. Il paese che fin dagli anni '20 del Novecento ha intrapreso la strada della "medicalizzazione" del consumo di eroina, consentendo ai medici di prescrivere e somministrare le dosi ai loro pazienti, e cioè la Gran Bretagna, non ha per questo abbandonato la rigida proibizione delle compravendite illegali.

E il paese occidentale più proibizionista, gli Stati Uniti, che fin dagli inizi del secolo passato ha adottato dure politiche punitive non solo del consumo di oppiacei e cocaina, ma anche della prostituzione, dell'alcol e del fumo, distribuisce con larghezza ai clienti autorizzati una sostanza, il metadone, che è uno stupefacente a tutti gli effetti.
In quasi tutti gli stati europei si sono affermate d'altro canto negli ultimi decenni politiche di non-punibilità di fatto del consumo ed interventi di assistenza sempre più efficaci per la cura dei tossicodipendenti.

La strategia di eliminazione delle colture illegali, inoltre, poteva essere adottata sia dai "liberalizzatori" che dai "proibizionisti" perché rivolta a conseguire un obbiettivo condiviso da tutti come la riduzione delle sostanze illecite in circolazione.

In tempi di mercati illeciti globali, poi, non aveva molto senso invocare né una più intensa repressione né una maggiore liberalizzazione. Dopo la crescita del consumo di droghe pesanti nel Terzo Mondo durante gli anni '80 e '90, la grande maggioranza dei tossicomani si trovava nei paesi poveri. Il Pakistan e l'Iran messi assieme ospitavano più consumatori di oppiacei di tutta l'Europa Occidentale.

I principali paesi extra-europei erano caratterizzati da situazioni schizofreniche in quanto a regimi di contrasto. Nei paesi asiatici, ad esempio, sulla carta erano in vigore legislazioni draconiane, che prevedevano decine di anni di carcere per il possesso di pochi grammi, o addirittura la pena capitale per i trafficanti. Era quindi impensabile auspicare inasprimenti ulteriori.

Nella realtà, in questi stessi paesi vigeva una situazione di legalizzazione di fatto. Le droghe si potevano acquistare liberamente ad ogni angolo di strada a prezzi bassissimi – nelle metropoli pakistane o cinesi una dose di eroina costava in strada una cifra irrisoria, inferiore ai 30 centesimi di dollaro – senza timore di interventi da parte delle forze dell'ordine, impegnate altrove o semplicemente assenti. La vicinanza alle zone di produzione faceva sì che un'offerta regolare ed abbondante rifornisse quei mercati, e la mancanza di assistenza alle vittime produceva un enorme numero di morti per overdose. Se si fosse rovesciata la legislazione attuando una vasta liberalizzazione non si sarebbe verificata in questi contesti alcuna influenza degna di nota né sulla domanda né sull'offerta.

La politica da promuovere nel Terzo Mondo era, invece, quella della depenalizzazione del consumo e della costruzione di centri di assistenza per i consumatori. L'esempio da generalizzare era lo standard europeo, basato sulla non criminalizzazione  dei tossicodipendenti, l'aiuto alle vittime e la lotta ai trafficanti.

Ma i mercati che contano, si può obiettare, in termini di fatturato e di conseguente capacità di influenzare produzione e traffico, non sono quelli del Terzo Mondo. Anche se i consumatori dei paesi poveri sono molto numerosi, i prezzi di vendita sono così bassi da far sì che essi non siano determinanti. I mercati presi in considerazione dai trafficanti sono sostanzialmente due: l'Europa Occidentale e l'America del Nord. E'qui che si ottengono i grandi profitti, ed è qui che si vince o si perde la partita contro la droga, ammesso che valga la pena di giocarla.

Vero. Nordamerica ed Europa Occidentale messi assieme contano per il 77% del fatturato di tutte le droghe, mentre il continente dove si producono più oppiacei e dove risiedono gran parte dei consumatori, l 'Asia, conta per il solo 11%. L'America del Sud, che produce la foglia di coca, non arriva al 7%.

Vero, ma solo in parte. I bassi prezzi alla produzione costituivano un fattore di vulnerabilità che era sfuggito alla maggior parte degli osservatori. Alla fonte, in Afghanistan, nel Myanmar e nel Laos la droga costava pochissimo. I contadini afgani vendevano l'oppio nel 1997 a 71  dollari al chilo. Un chilogrammo di eroina, che richiede 10 chili di oppio per essere prodotto, costava solo 710 dollari alla fonte. Lo stesso quantitativo venduto in strada in Iran valeva già 15mila dollari. In Turchia 35mila. Lungo la rotta balcanica 50-60mila e in Europa 140mila dollari se spacciato in confezioni da 1 grammo. Tagliato e venduto in bustine da 100 o 200 milligrammi, valeva molto di più.

Un chilo di cocaina veniva venduto nello stesso anno in Bolivia a 682 dollari, che diventavano 110mila in Europa e 66mila negli Stati Uniti.

Nel gigantesco squilibrio tra l'irrisorio prezzo delle droghe alla produzione ed i grandi fatturati delle vendite finali si concentra buona parte del problema della droga. Ed è questo squilibrio che alimenta il pessimismo sulle possibilità di combattere efficacemente il traffico. Un business che fa aumentare di decine di volte la cifra investita è assai difficile da stroncare. Quando le droghe sono arrivate ai mercati ricchi, è rimasto ben poco da fare. L'industria finisce col trovare sempre i suoi addetti, perché di fronte a profitti così strepitosi gli agnelli diventano leoni, e sono tanti i soggetti disposti a correre i rischi del caso.

Buona parte del senso di frustrazione di fronte al tema del contrasto delle droghe nasce quindi da una valutazione razionale. Ma perché invece di guardare solo alla fine del percorso, quando il ruscello è diventato un fiume impetuoso, non guardiamo all'inizio, alla fonte? Al ruscello, appunto.

Qui le cifre sono diverse. Il valore dell'intera produzione di oppio nell'Afghanistan del 1997, al momento del mio arrivo all'ONU, era di 199 milioni di dollari: 2.804 tonnellate di oppio moltiplicate per 71, che è il prezzo di un chilo. Tutto qui. Una cifra molto piccola. Tanto piccola da convincermi che era su quel terreno che valeva la pena di giocare la partita.

La cifra mi era nota da prima dell'esperienza ONU. Più volte avevo vagheggiato il proposito di elaborare una proposta per l'eliminazione delle colture illecite. Solo che adesso mi trovavo nella posizione di iniziare a realizzarla.

Un ragionamento simile si poteva fare anche per la produzione di coca. Il valore della sua produzione nel 1997 era di 295 milioni di dollari in Colombia, e di 667 per i tre paesi andini produttori. Una cifra molto vicina a quella della produzione di oppio in Asia, pari a 689 milioni di dollari.

Non erano valori spaventosi. 295 milioni di dollari rappresentavano lo 0,14% del PIL colombiano del 1997. 199 milioni di dollari erano l'1,1% di quello afgano. C'erano larghi spazi per un intervento strutturale.

Ma perché nessuno se ne era accorto prima?  Perché nessuno aveva avuto la stessa idea che cominciava a prendere corpo nella mia testa, cioè quella di preparare dei piani di sviluppo per le zone di produzione che in cinque anni facessero piazza pulita delle coltivazioni illecite offrendo ai contadini alternative credibili?

La risposta sta nella cultura di sconforto e di impotenza che paralizzava ogni azione a largo raggio contro le droghe, e nel conseguente approccio minimalista a tutta la problematica, guidato dalla convinzione che non ci fosse niente da fare se non capitolare, ridurre i danni ed accettare la convivenza con il problema.

A ben guardare, tuttavia, c'erano stati in passato dei tentativi di intervento stimolati dalla stessa asimmetria dei mercati che avevo notato io. Negli anni '70 alcuni senatori americani avevano proposto a Kun Sa, il signore dell'oppio birmano, di acquistare l'intero raccolto di oppio del Triangolo d'oro e di distruggerlo, in cambio dell'astensione dalla semina l'anno successivo. Non se ne era fatto nulla, per fortuna.

Non era infatti una buona idea, anche se partiva da una analisi corretta dei punti di vulnerabilità del sistema. Se c'era una cosa che l'ONU aveva imparato in quasi 30 anni di esperienza sul campo, essa era che sussidiando i contadini per non fargli coltivare droga, oppure comprandogli il raccolto, non si andava da nessuna parte. Si stimolava anzi un effetto perverso, in quanto li si spingeva ad accrescere le coltivazioni illecite.

Se si voleva ridurre la produzione di oppio e coca occorreva lavorare sulle fonti dell'offerta, ma con interventi articolati, pluriennali, accompagnati da una severa messa al bando delle coltivazioni. Questo era l'insegnamento-chiave, emerso fin dai primi progetti-pilota di sviluppo alternativo realizzati in Asia e in America Latina.

Dopo varie vicissitudini, il progetto di eliminazione delle colture di oppio e coca tramite lo sviluppo di produzioni legali divenne una realtà. Misi sotto pressione i miei uffici, e riuscimmo a convincere vari paesi riluttanti a sostenere l'idea attraverso una serie di interventi e di dimostrazioni di fattibilità dell'impresa. Assegnammo ad essa un price tag e una scadenza di dieci anni. Presentai il progetto al Senior Management Group dell'ONU  - una specie di Consiglio dei Ministri creato da Kofi Annan per discutere i principali argomenti all'ordine del giorno nell'organizzazione – ed ottenni anche l'approvazione preventiva del Presidente della Banca Mondiale Jim Wolfensohn.

Jim mi chiese di quantificargli il price tag, e quando gli risposi che si trattava di 500 milioni di dollari all'anno, rimase sorpreso dalla sua esiguità e mi promise il sostegno finanziario della Banca. Il progetto fu discusso in varie riunioni preliminari con i paesi membri, e fu presentato ed approvato all'unanimità dalla sessione speciale sulle droghe dell'Assemblea Generale dell'ONU nel giugno 1998.

L'approvazione della strategia fu un grande successo del Programma Antidroga (l'UNDCP di allora, oggi UNODC) che usciva così dal cono d'ombra delle organizzazioni minori e si conquistava il diritto alla prima fila presso i mezzi di comunicazione e presso gli stati membri. Questi ultimi, tuttavia, avevano sottoscritto senza riserve ispirazione, timeframe e scopi finali del progetto, ma si erano fermati lì. Le risoluzioni e nei documenti della Sessione Speciale traboccavano di lodi, esortazioni ed impegni solenni, ma non contenevano alcun riferimento alla condizione cruciale per la realizzazione della strategia: l impegno finanziario.

Avevo scelto di non battere troppo su questo punto nei lavori preparatori perché pensavo che far "digerire" ad una comunità di diplomatici un progetto così audace in soli 7-8 mesi era di per sé un grande risultato. Insistere sull'approvazione contestuale di un piano di copertura finanziaria avrebbe significato chiedere troppo, e si sarebbe messa aa repentaglio l'intera operazione.

L'intesa con i paesi che sostenevano più caldamente il progetto era che subito dopo l'Assemblea di New York si sarebbe lavorato assieme per il fundraising necessario.  Rispetto all'ambizione dell'impresa la somma da mettere assieme era ragionevole. E il Presidente della Banca Mondiale – l'autorità suprema in materia -  non aveva detto, dopotutto, che il costo era ridotto?

Per raggranellare 500 milioni di dollari all'anno da destinare ad investimenti in produzioni agro-industriali e in servizi da attivare in alcune delle zone più povere e remote del pianeta non occorrevano, in effetti, sforzi sovrumani. La riduzione della domanda di stupefacenti che sarebbe certamente seguita ad una massiccia diminuzione dell'offerta mondiale avrebbe significato, nei paesi più ricchi, una corrispondente contrazione dei budget per l'assistenza e la cura dei tossicodipendenti e un aumento della produttività. Tutto ciò avrebbe più che compensato - nei bilanci dell'assistenza allo sviluppo - lo stanziamento di risorse aggiuntive destinate ai paesi produttori di narcotici.

Questa scelta si è rivelata politicamente sensata, ma gli sviluppi successivi hanno mostrato come i successi della strategia siano da attribuire in massima parte all'impegno dei paesi sede di produzioni illecite nel rispettare accordi e scadenze, e in misura molto modesta all'aiuto internazionale di provenienza occidentale. Solo nel caso della Bolivia e del Peru siamo riusciti a mobilitare l'arrivo in loco di quelle extra-risorse necessarie per finanziare i piani di riconversione e ridurre al minimo le coltivazioni di coca. Nel caso del Pakistan siamo riusciti a portare a termine un processo di eliminazione delle coltivazioni di oppio che era già in corso da una ventina di anni, e ci sono occorse risorse limitate: non più di una ventina di milioni di dollari la cui destinazione ho curato personalmente, e che hanno determinato l'uscita del Pakistan dal novero dei paesi produttori.

Nel caso dell'Afghanistan, il successo più clamoroso è stato il quasi azzeramento della produzione di oppio nella parte del paese controllata dai Talebani nel 2001, ma si è trattato dell'esito di una partita politica, giocata tra noi delle Nazioni Unite, i Talebani ed i paesi confinanti più gli Stati Uniti e la Russia. In questo caso, le nostre armi sono state le sanzioni, le minacce di sanzioni, l'isolamento politico dei Talebani anche nei confronti dei paesi loro amici, e il sostegno congiunto dell'ex-Unione Sovietica e dell'amministrazione Clinton alle nostre iniziative nella regione.

Non siamo riusciti, però, a convogliare importanti quantità di risorse aggiuntive in Afghanistan specificamente destinate alle produzioni alternative all'oppio. Ciò ha limitato l'impatto della nostra strategia, ma la responsabilità in questo caso è da ascrivere all'invasione americana del paese dell'ottobre 2001, ed al loro governo dell'Afghanistan negli anni successivi.
Mi spiego meglio. Ho preso servizio all'ONU il 1 settembre 1997, ed ho subito messo al centro degli sforzi dell'UNDCP la situazione dell'Afghanistan, che già produceva buona parte del papavero mondiale. Due mesi dopo avevo in mano un piano di eliminazione delle coltivazioni illecite di quel paese: si trattava di spendere 25 milioni di dollari all'anno per 10 anni in produzioni alternative all'oppio, non solo agricole ma anche industriali. L'obiettivo era quello di ridurre il raccolto del 20% all'anno nei primi 5 anni, e di consolidare il risultato nei 5 successivi.

L'ammontare minimo della cifra era dovuto al prezzo molto basso della materia prima illecita. La media era di 71 dollari al chilo, ma nel 1996-97 in alcune province di massima concentrazione del papavero il prezzo dell'oppio scendeva fino a 30 dollari. La cifra era talmente contenuta che anche un programma di piccole dimensioni come il mio era in grado di gestire l'intervento nelle aree interessate, che allora ricoprivano una quota infima della superficie arabile del paese. Anche il numero di famiglie di coltivatori di papavero da oppio era modesto: non si andava oltre le 50mila, per un totale di 400-500mila persone che vivevano dei proventi dell'economia illecita.

Questi dati erano ben noti alle agenzie internazionali dello sviluppo ed ai paesi donatori occidentali. In una delle prime riunioni che convocai per discutere il piano per l'Afghanistan, il rappresentante del governo svedese offrì di finanziare il 7% dell'intero progetto senza aver neppure il bisogno di consultare la sua capitale. Un impegno di quella scala rientrava nel potere decisionale di un funzionario di grado medio-alto.

Partii per l'Afghanistan nel novembre 1997 dopo aver discusso le linee del progetto di eliminazione delle colture illecite con alcuni dei maggiori donatori dell'UNDCP, e previa autorizzazione del Segretario Generale, convinto sostenitore di tutto il mio lavoro in Afghanistan. I Talebani controllavano già il 90% del paese, ed era utile un contatto con loro anche per altre ragioni.

Mi trovai di fronte, a Kandahar, il capo "terreno" dei Talebani, Mullah Muhammad Rabbani, il loro primo ministro. Il leader spirituale, il leggendario Mullah Omar, era inavvicinabile perché egli non parlava con i non-islamici. Rabbani esordì dicendo di avere appena ascoltato la BBC in lingua pashtun, e di avere appreso che avevo un progetto da 250 milioni di dollari per far scomparire il papavero dall'Afghanistan in 10 anni.

"Approvo il suo progetto. Anche noi siamo contro l'oppio, e lo vogliamo eliminare una volta trovata una soluzione che consenta ai nostri contadini di sopravvivere.  Sono il Primo Ministro e non mi occupo di piccole cose. Per questo le chiedo: "Perché vuole aspettare 10 anni?. Lei ci dia 250 milioni di dollari e in un anno non ci sarà più un papavero in Afghanistan".

Chiesi una sospensione del negoziato, mi consultai con i collaboratori e dopo la riapertura esordii rifiutando la sua proposta.

"Non ho 250 milioni di dollari. Li devo chiedere ai paesi donatori del Programma. I quali non me li daranno mai a causa della vostra reputazione in materia di droga e di diritti delle donne. Cominciate a far scomparire il papavero l'anno prossimo, magari in metà dell'Afghanistan, e noi sosterremo i vostri contadini aumentando l'aiuto umanitario. Acquisite credibilità in questo modo, e vi assicuro che in un momento successivo la comunità internazionale vi verrà incontro".

Rabbani prese atto di non avere fatto il "breakthrough" che si aspettava e che aveva forse promesso di raggiungere al suo unico superiore (a parte Allah) e se ne andò irritato. La mia visita in Afghanistan fu comunque profittevole. Essa si concluse con un accordo con il governatore di Kandahar, Mohammad Hassan, per una specie di test di credibilità secondo il quale noi avremmo rimesso in funzione una grande fabbrica tessile della provincia in grado di fornire occupazione alternativa ai produttori di oppio, e loro avrebbero messo in pratica il divieto di coltivarlo che avevano emanato pochi mesi prima su nostra pressione.

Hassan finì col capitolare anche sulla questione delle donne che avrebbero dovuto lavorare nella fabbrica, ma il progetto si arenò pochi mesi dopo perché un investitore straniero residente a Kandahar, fiutato l'affare, si era intromesso nel nostro accordo acquistando l'azienda dal governo. Il  nome dell'investitore era Osama Bin Laden.

Da quel momento in poi la nostra strategia verso i Talebani si mosse lungo due direttrici: isolamento politico del loro movimento sul tema della produzione dell'oppio, e sanzioni del Consiglio di Sicurezza. Queste ultime ebbero un certo effetto perché fecero affievolire i finanziamenti  che affluivano ai Talebani dall'area del Golfo Persico  ed alzarono il costo del servizio di babysitting gentilmente offerto loro dall'ISI, il servizio segreto pakistano. Ma l'impatto di gran lunga più importante fu quello ottenuto coinvolgendo nella nostra strategia i 6 paesi che circondano l'Afghanistan, cioè i destinatari del 50% della produzione afghana di droga. Pochi si rendevano conto, a quel tempo, del fatto che l'eroina, prima di essere trasportata in Europa lungo la strada balcanica, veniva distribuita ai tossicodipendenti iraniani, pakistani, usbeki, tagiki, turkmeni e cinesi. Negli anni '80 e '90, come abbiamo detto, essi erano cresciuti esponenzialmente, e il problema della loro assistenza era diventato un emergenza nazionale in Pakistan, Cina ed Iran.

Feci numerosi viaggi nella regione, ed anche i paesi amici dei Talebani finirono con l'aderire in pieno alla nostra politica di pressioni sugli studenti coranici, per costringerli a punire i trafficanti e ad applicare la proibizione di coltivare l'oppio. Alla sede ONU di New York risuscitammo un gruppo di lavoro  - il 6+2 – formato dai paesi confinanti con l'Afghanistan più la Russia e gli USA, e riuscimmo a far passare l'idea che la questione dei narcotici era la chiave per la soluzione politico-diplomatica del dramma afgano.

Dopo l'avvento di Putin, nell'autunno 1999, e grazie ad un accordo che stipulai con il presidente del Tajikistan, Emomali Rahmonov , inoltre, riuscimmo a costituire un'agenzia specializzata per la lotta alla droga in Tajikistan in grado di compiere operazioni congiunte con le truppe russe dislocate alla frontiera con l'Afghanistan. Il risultato del mio primo incontro con Putin e di una serie di missioni in Asia Centrale fu l'accesso ad una fonte di informazioni ricchissima, che ci consentì di compiere la più spettacolare scoperta della storia dell'antidroga: un network di 40 depositi di oppio, morfina ed eroina distribuiti lungo il lato afgano di 1700 chilometri del confine afgano-tagiko. I depositi erano l'equivalente della caverna di Alì Babà dei trafficanti, essendo capaci di stoccare oltre 100 tonnellate di eroina: la domanda di due anni del mercato europeo.

Avvertii della scoperta il Presidente della Commissione Europea, Romano Prodi, e misi tutte le informazioni a disposizione dei principali servizi dell'intelligence antidroga. Portai personalmente le fotografie satellitari al Consiglio di Sicurezza. Avevamo scoperto la fonte di una seria minaccia alla sicurezza globale. L'anno prima, nel 1998, l'eroina prodotta nel mondo ammontava a 435 tonnellate. Ne potevamo distruggere quasi un quarto in un solo colpo. Negli anni precedenti, tutte le polizie del pianeta messe assieme non riuscivano a sequestrare che una trentina di tonnellate di eroina. Chiesi di autorizzarmi a costruire un intervento, ma fui fermato da due semafori rossi: un misterioso veto inglese a qualsiasi azione sul campo, e l'imbarazzo delle agenzie di intelligence americane, che temevano di subire gli strali del Congresso una volta messa a nudo la loro incapacità di sopravanzare una squattrinata agenzia ONU. Sfumò così la possibilità di chiudere il rubinetto della droga e lasciare a secco il mercato europeo.

L'occasione buona si ripresentò l'anno successivo, nella primavera del 2001, quando i Talebani, cedendo alla marea di critiche provenienti dai paesi che gli avevamo messo contro, decisero improvvisamente di far rispettare la messa al bando della coltivazione del papavero, determinando il quasi azzeramento della produzione nel 90% del territorio afgano che si trovava sotto il loro controllo. La produzione del papavero rilevata dai satelliti USA e dai nostri team sul terreno mostrò un crollo da 82mila ettari nel 2000 a 7mila 600 nel 2001. Questi ultimi ettari si trovavano tutti nelle zone controllate dai nemici dei Talebani, cioè da quelli che avrebbero preso il potere negli anni successivi.

Ma la nostra euforia per il successo che la comunità internazionale aveva finito col conseguire dimostrando che era possibile eliminare la maggior parte della produzione mondiale di oppio, non durò a lungo.

Ci fu l'11 settembre e l'invasione, un mese dopo, dell'Afghanistan, con la cacciata dal potere dei Talebani e l'insediamento di un governo filo-americano e filo-occidentale. Contro ogni previsione e contro ogni logica, la coltivazione del papavero da oppio è rapidamente riapparsa nel paese, e si è espansa negli anni successivi fino a superare i livelli dell'anteguerra e trasformare l'Afghanistan nell'unico narco-stato della terra, dove quasi metà dell'economia, del governo, del parlamento e della società è direttamente collegata alla produzione illecita. Questo fatto continua a rappresentare uno dei più oltraggiosi scandali internazionali, perché quando gli americani sono entrati a Kabul l'Afghanistan era praticamente libero dalle coltivazioni, e non sarebbero occorsi molti sforzi per mantenere lo status quo.

Le alterne vicende afgane ed il frustrante esito finale non hanno, tuttavia, messo una pietra tombale sulla nostra strategia. A dieci anni di distanza è possibile fare un bilancio, e questo non è affatto negativo. Il setback afgano, in primo luogo, non può essere attribuito all'ONU ma alla cecità delle potenze occupanti, le quali hanno preferito una soluzione militare della questione del terrorismo e dell'instabilità in Afghanistan ignorando la loro stessa esperienza degli anni precedenti: l'esperienza costruita assieme alle Nazioni Unite e incentrata sulla riconversione dell'economia illecita.

In secondo luogo, in tutte le altre parti del mondo gli impegni dei paesi che hanno aderito alla nostra strategia hanno avuto un grande impatto positivo, riducendo drasticamente le coltivazioni di oppio, interrompendo la crescita di quelle di coca, e rimuovendo dal mercato una quantità insperata di narcotici.

I dati parlano chiaro. Gli accordi con le Nazioni Unite, gli interventi dei governi locali e il successo delle strategie nazionali di eliminazione delle coltivazioni di oppio e coca hanno determinato dal 1998 in poi una contrazione delle coltivazioni che non ha precedenti. Nell'anno del mio arrivo a Vienna come Direttore Esecutivo dell'UNDCP esistevano 251mila ettari coltivati ad oppio e 330 mila coltivati a coca. Ho lasciato le Nazioni Unite nel 2002, dopo aver contribuito a far decrescere la coltivazione di oppio a 170mila e quella di coca a 294mila ettari.

Ma questi sono i dati aggregati, che non tengono conto di elementi qualitativi cruciali come la quasi scomparsa del Triangolo d'Oro del sudest asiatico e della Bolivia dalla lista dei produttori, e l'annullamento del fenomeno del dislocamento delle colture illecite da un paese all'altro, il famoso "baloon effect" che ha frustrato molti dei successi passati nell'azione di contrasto.

Al di fuori dell'Afghanistan le colture di papavero si sono ridotte da 193mila a 36mila ettari tra il 1997 e il 2006. La contrazione è dell'81%, e si è verificata in larga parte per effetto delle strategie di eliminazione su scala nazionale avvenute durante il mio mandato. Grandi produttori tradizionali come il Laos, il Pakistan e il Vietnam sono riusciti a liberarsi in modo pressoché definitivo dal flagello delle produzioni illecite dopo il 1997-98, sulla base di accordi con l'UNDCP scaturiti dopo il varo della nostra strategia e con risorse reperite in massima parte in loco.

In quello che è stato per decenni il Triangolo d'Oro, restano solo 21mila ettari di papavero in Myanmar, poco più del 10% del totale mondiale. I due principali paesi del triangolo nel 1997, producevano quasi il 72% dell'oppio globale. Dopo le mie visite del 1998-2000 e gli accordi conseguenti, il Laos ha cessato di produrre eroina per il mercato internazionale nel 2002 e il Myanmar ha ridotto la superficie coltivata di quasi il 50% tra il 1998 e il 2003.

Gli sforzi della Bolivia e del Peru nel varare piani nazionali di sviluppo alternativo per le zone di produzione della coca dopo la loro adesione alla strategia globale lanciata nel 1998 sono stati straordinari, ed ammirevoli dal punto di vista dei risultati. Tra il 1997 e il 2002 il governo boliviano ha lanciato assieme all'UNDCP una serie di progetti di sviluppo rurale che hanno più che dimezzato, e in modo permanente, la produzione di coca: dai 45mila ottocento ettari del 1997 si è passati ai poco più di 20mila del 2002.

In Peru, i fasti degli anni '80 e dell'inizio degli anni '90, quando la superficie coltivata ha raggiunto e superato i 120mila ettari, non si sono più ripetuti. Gli ettari illeciti sono scesi sotto quota 70mila nel 1997 ed hanno continuato a scendere fino ai 44mila del 2003. La lieve risalita dopo quell'anno, verificatasi anche in Bolivia, non ha intaccato il trend di fondo.

Nel pianeta della coca si è verificato un fenomeno simile a quello avvenuto  con l'Afghanistan nell'ambito dell'oppio. La produzione illegale si è gradualmente concentrata in un singolo paese – in questo caso la Colombia – senza spostarsi in zone nuove. Non è azzardato affermare, perciò, che uno dei maggiori risultati dell'iniziativa antidroga delle Nazioni Unite inaugurata nel 1998 consiste nella riduzione tendenziale del teatro del confronto a due soli paesi: la Colombia e l'Afghanistan.

La partita finale si giocherà in due campi di battaglia invece degli 11 di un decennio addietro. Ciò si deve al fatto di avere incorporato nella strategia una specifica azione di contrasto del baloon effect, basata sulla costruzione di un sistema di monitoraggio satellitare delle coltivazione indipendente da quello effettuato dalla CIA per conto del governo USA.

Fino al 1998 l'unica fonte globale di dati sull'estensione e la localizzazione delle coltivazioni era la CIA. La mia decisione di creare presso le Nazioni Unite un centro di monitoraggio che avrebbe usato i dati forniti dalle agenzie spaziali nazionali, oppure dalla European Space Agency che si era offerta di darceli quasi gratis, ha rotto il monopolio dell'intelligence americano ed ha consentito ai paesi "osservati" di diventare proprietari dei dati sulle coltivazioni illecite del loro territorio. La proposta di creare un sistema multilaterale di osservazione e di elaborazione dei dati sui raccolti illegali fu trasformata in una mozione che fu approvata con un certo scalpore alla Commissione sui Narcotici del 1999.

Ma il vantaggio maggiore del monitoraggio satellitare è stato quello di prevenire la migrazione delle coltivazioni. Oggi si è in grado, in un numero crescente di paesi "a rischio", di individuare in tempo reale i primi tentativi di coltivare oppio o coca e di intervenire  sui primi 200-300 ettari di nuove coltivazioni. Queste possono essere distrutte in pochi giorni senza particolari problemi. Se fossimo stati costretti ad attendere i primi 3mila o 4mila ettari, sarebbe stato già troppo tardi. Ci saremmo trovati di fronte ad un problema di dipendenza socio-economica di centinaia di famiglie dal raccolto illecito, ed avremmo dovuto varare piani pluriennali di sviluppo alternativo. Dopo 3-4 di anni di rincorsa delle coltivazioni come il gatto dietro il topo, i donatori e l'opinione pubblica si sarebbero stancati ed avrebbero mandato in soffitta Piano e pianificatori.

L'avere impedito questo esito, contraddicendo le catastrofiche previsioni di quasi tutti gli esperti, ha accresciuto la fiducia della comunità internazionale nella possibilità di raggiungere l'obiettivo dell'eliminazione definitiva delle colture illecite.

L'impatto benefico della strategia "un mondo senza droga nel 2008" si è esteso anche alle droghe non incluse nella nostra strategia di eliminazione, perché anche l'espansione del consumo di cannabis e delle droghe sintetiche sta conoscendo da alcuni anni una battuta di arresto. I risultati positivi in questo caso sono da attribuire alla filosofia olistica che ha animato la strategia del mondo senza droga. Essa ha previsto anche un impegno più profondo dei paesi consumatori per la riduzione della domanda di tutti i tipi di sostanze illecite. Le campagne, i messaggi, le politiche  e le tecniche di intervento per scoraggiare il consumo di eroina e cocaina hanno delle valenze che si applicano anche alle droghe chimiche e alla cannabis ed ai suoi derivati.

Il quadro d'insieme è perciò oggi molto più incoraggiante di un decennio addietro. Il controllo internazionale delle droghe funziona per quasi ogni tipo di sostanza. Il consumo dell'eroina è in diminuzione nei mercati più ricchi e strategicamente più rilevanti. Quello della cocaina è stabile, dato che la forte riduzione dei consumatori americani viene compensata da un aumento di quelli europei. La produzione e l'abuso delle droghe sintetiche, che sembravano inarrestabili fino a 5-6 anni fa, si sono stabilizzate, con chiari segni di declino negli USA e in misura minore in Europa.

E per la prima volta in quasi un decennio, anche la produzione e il consumo di cannabis non mostrano più un trend ascendente. Qui le stime sono più difficili perché la cannabis viene coltivata in almeno 172 paesi, spesso in piccoli appezzamenti gestiti dagli stessi consumatori. Ma in Marocco, cioè nel paese che produce il 70% dell'hashish consumato in Europa, le stime dell'UNODC sono relativamente precise e mostrano un declino da 134mila ettari nel 2003 a soli 76mila 400 nel 2005.

Un altro dato molto incoraggiante è costituito dalle cifre sui sequestri delle droghe più pesanti. Si è ormai affermato un trend di lungo periodo secondo il quale la quota di sostanze intercettate dalle forze dell'ordine continua a crescere. Il miglioramento è anche qui iniziato dalla svolta del 1998. Da allora ad oggi, la quantità di cocaina sequestrata è passata dal 24% a quasi il 50% del totale, mentre l'eroina è passata, nello stesso periodo dal 15 al 25%.

L'economia della droga è perciò in recessione in tutto il mondo. Si è trattato, in definitiva, di dieci anni non perduti.

Pino Arlacchi

Roma, giugno 2008

 
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