“Il traditore” è un buon film, ma il gioco di potere era altro

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Il Fatto Quotidiano, 26 Settembre 2019

Pino Arlacchi sulla pellicola che l’Italia ha candidato agli Oscar: “Mancano ‘inganno’ e ‘morte’ dentro i quali si muovevano le vite dei protagonisti”

Ho conosciuto e frequentato per quasi 15 anni Tommaso Buscetta e la sua famiglia. Ho pubblicato nel 1994 il racconto in prima persona della sua vita, e ho visto il film che Marco Bellocchio gli ha dedicato con un titolo un po’ curioso, Il traditore (ora candidato per l’Italia a entrare nella nomination degli Oscar): titolo che rimane al di sotto sia del personaggio che della storia raccontata. Tommaso Buscetta non è stato un semplice traditore, né un collaboratore di giustizia singolare perché non pentito. Ed è riduttivo presentarlo come un capomafia che si vendica della sua sconfitta facendo colpire dallo Stato i nemici che non può più raggiungere da solo. Buscetta è l’uomo d’onore che ha consentito a Giovanni Falcone e alla giustizia italiana di compiere un’impresa di portata epocale: la distruzione di Cosa Nostra.

La pellicola si concentra sui drammi personali di un personaggio shakespeariano, con la pelle e l’anima bruciate dallo sterminio di figli, fratelli, cognati, nipoti e amici, e dalla degenerazione di un mondo in cui aveva creduto con tutte le sue forze. Un universo di valori e norme – quello di Cosa Nostra – che viene stravolto dai mafiosi corleonesi, i veri “traditori” posseduti dall’auri sacra fames, dal denaro cioè dalla droga e dalla corruzione politica. Va dato merito a Pierfrancesco Favino di avere dato vita a un personaggio indimenticabile, che ricalca in modo sbalorditivo, commovente, il Buscetta che ho conosciuto: un uomo affascinante, a più strati, coerente e contraddittorio, violento e tenero, innamorato della vita e votato alla tragedia, sua personale e, purtroppo, di chiunque gli sia stato vicino. Favino è riuscito a cogliere e rappresentare la dimensione più profonda di Buscetta: il suo essere nello stesso tempo un perfetto mafioso e un uomo che cerca di fuggire dalla mafia, perché la trascende, avendone intuito tutta la sventurata meschinità: “Quanto ero stato sciocco e presuntuoso nel voler fuggire dalla Sicilia e dalla setta fosca che mi aveva imprigionato! Il mafioso è un pesce di scoglio, piccolo, meschino, pratico, che ha bisogno di una tana e di tanti anfratti. Io pretendevo di fare il pesce di acqua blu, che si muove negli oceani e parla con le stelle!” (Addio Cosa Nostra, Chiarelettere).

In questo senso Buscetta ha rappresentato un caso unico, perché la sostanza umana che compone la mafia è davvero misera. Tutti i mafiosi che ho incontrato mi hanno colpito per la loro mediocrità. Mi sono perciò chiesto come fosse stato possibile che un soggetto così squallido come quello che avevo di fronte fosse stato capace di gesta malefiche tanto celebrate. E la migliore definizione che mi riesce di trovare dei mafiosi è: piccoli uomini dentro grandi storie. Ed è proprio la grande storia dentro cui si è svolta l’umana avventura di Buscetta che costituisce la parte più debole della fatica di Bellocchio. Che è comunque un filmone, lontano anni luce dalle Piovre, ma tutta la seconda parte, dall’incontro di Buscetta con Falcone in poi, non è all’altezza dell’estremo gioco di potere, di inganno e di morte dentro il quale i destini di tre uomini si sono irrimediabilmente avvinghiati nell’Italia della fine del secolo passato. Mi riferisco alla coppia Falcone/Buscetta da un lato e a Giulio Andreotti dall’altro. Il finale di partita inizia, evvero, nel 1984 con la decisione di Buscetta di collaborare, e con la svolta di Falcone che rompe il tabù quasi centenario di dar credito a un mafioso che parla con le autorità. E da qui nasce la maggiore opera di Giovanni Falcone: il maxi-processo del 1986-87, cioè il colpo di maglio che ha spezzato la schiena della mafia siciliana. Ma c’è stato di più. Già nel 1985 Buscetta rivela a Falcone il segreto dei segreti: l’identità del massimo protettore e capo di Cosa Nostra, che non era altro che il premier in carica. Rivelazione fatale, messa per iscritto solo dopo Capaci a causa della sua dirompenza, ma traccia fondamentale per Falcone/Borsellino.

Sono stato amico e collaboratore di entrambi. E ho navigato assieme a loro dentro i gelidi canali dell’impunità mafiosa, seguendo la Stella Polare mostrataci da Buscetta: dalle cosche di Palermo ai cugini Salvo, alla Cassazione, al governo, ai servizi di sicurezza, alle logge massoniche delinquenti. Una missione di giustizia tenace, discreta e dolente, condotta dai due grandi italiani fino all’ultimo. Il film dà conto del maxi-processo e dei processi contro Andreotti degli anni successivi, ma la ricostruzione è un po’ troppo televisiva, scialba e confusa. I personaggi dal lato dello Stato, a cominciare da Falcone, sono rigidi e poco espressivi. Il rapporto di Buscetta con il giudice è stato più intenso e vero di quanto venga rappresentato. Se Bellocchio avesse approfondito meglio, sarebbe emersa una profonda stima reciproca e la sconsolata consapevolezza del viaggio senza ritorno intrapreso in nome della legge e, per Buscetta, al di là della vendetta.

Infine, una delle maggiori carenze de Il traditore è il ruolo di Cristina, l’ultima moglie di Buscetta: donna fuori del comune, che da sola avrebbe meritato un film, e senza la quale la vicenda di Buscetta sarebbe terminata presto, o non sarebbe cominciata.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2019/09/26/il-traditore-e-un-buon-film-ma-il-gioco-di-potere-era-altro/5478610/

 
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