I proclami interventisti dell’Eliseo isolano Parigi nella NATO. Non sono preoccupazioni umanitarie a motivare i piani francesi ma l’ambizione di protagonismo in un’area strategicamente importante.
l'Unità, 13 mar. 2011
di Pino Arlacchi
«Ci sono tre condizioni per un intervento militare in Libia. La prima è l’esistenza di prove tangibili della sua necessità (prove che non ci sono). La seconda è che esista una chiara base legale (una risoluzione del Consiglio di Sicurezza ONU, che non c’è finora e difficilmente ci sarà). La terza è che ci sia una richiesta esplicita proveniente dalla regione (una improbabile richiesta di aiuto militare dalla Lega araba o da un governo provvisorio libico)».
Togliete il commento tra parentesi ed avrete comunque un’ottima dichiarazione. Perfettamente condivisibile da chiunque abbia a cuore la pace ed i diritti umani.
Ma il fatto curioso è il suo autore. Non si tratta di un dirigente ONU, né di un esperto schierato sul fronte della non esportazione della democrazia. L’autore questa volta è né più né meno che il Segretario della NATO, Rasmussen.
Un secondo fatto, solo un po’ meno singolare, è che questa dichiarazione contraddice la minaccia di Sarkozy di un bombardamento di postazioni militari libiche. Un atto di guerra, cioè, che farebbe partire la classica spirale che finisce con l’invasione e l’occupazione militare di un paese debole da parte di una coalizione di potenti.
L’attenuata bizzarrìa della posizione NATO si spiega con il fatto che sia gli Usa, cioè il maggiore azionista dell’Alleanza Atlantica, sia la Germania sia vari altri paesi membri della coalizione si siano subito adoperati per isolare la “sparata” del premier francese. Rasmussen ha solo espresso la posizione prevalente nel Consiglio NATO.
Il ministro degli esteri tedesco ha detto che Berlino non ha intenzione di venire risucchiata in una guerra in Nordafrica. Il segretario americano alla difesa ha confermato. Ed ha aggiunto che gli Stati Uniti sono già impegnati militarmente contro due paesi musulmani, che per usare la forza contro Gheddafi occorre comunque una autorizzazione dell’ONU, e che il suo governo non vede con favore l’idea della “no-fly zone”, e dubita perfino della legalità di un intervento armato per far rispettare l’embargo sulle forniture di armi alla Libia. Gli inglesi, da sempre euroscettici, hanno (coerentemente!) affermato che l’Unione Europea deve fare di più in questa crisi. (Per ciò che concerne la posizione italiana, approfitto dell’Unità per lanciare un appello a chiunque abbia notizia di farci sapere qual è).
Poiché Sarkozy è il leader europeo che assomiglia di più al signor B., non solo per statura ma anche per arroganza e cialtroneria, il tutto può essere archiviato come una bufala. E un inganno pre-elettorale di un candidato che sente incombere la sconfitta.
Ma forse non è così, e cerchiamo di spiegare le componenti di un gioco della parti internazionale che è meno paradossale e confuso di quanto appaia a prima vista. Vale a dire che gli Stati Uniti non sono né impazziti né diventati pacifisti. Gli inglesi non sono diventati europeisti. I tedeschi non si sono scoperti isolazionisti. E la bufala di Sarkozy non è poi così innocua.
Il primo elemento da considerare è che mano a mano che la situazione sul terreno diventa più chiara, l’incubo di una terribile emergenza determinata da atrocità di massa contro civili libici per fortuna sembra allontanarsi. Le tecnologie di osservazione satellitare e di intercettazione delle comunicazioni si sono molto evolute in questi ultimi anni, e non ci sono pervenute né immagini di bombardamenti contro agglomerati civili né informazioni su piani di uso di armi di distruzione di sterminio da parte di Gheddafi.
Di conseguenza, non ci sono gli estremi per applicare fino in fondo la più radicale delle dottrine per l’uso internazionale della forza, la “responsability to protect”.
Se l’urgenza di un intervento armato umanitario viene meno, restano in piedi due opzioni. La prima è il lasciare le cose come stanno sotto il profilo politico-militare ed attendere il risultato dello scontro tra le fazioni limitandosi ad attivare la normale attrezzatura delle crisi internazionali (missioni di pace, assistenza ai rifugiati, Croce Rossa, emergenze alimentari e sanitarie, ecc.).
È il modello Somalia, che la comunità internazionale applica a paesi marginali e privi di risorse naturali consistenti, e che aiuta a capire il suo iniziale atteggiamento verso la Tunisia agli albori della rivoluzione democratica in corso.
La seconda alternativa consiste nell’intervenire nella guerra civile, influenzando a proprio vantaggio il possibile cambiamento di regime, e tenendo sempre aperta la porta all’intervento militare estero. Questa opzione si applica a contesti che possiedono un valore strategico. La Libia non è la Tunisia, perché ha il petrolio ed una serie di accordi per il suo sfruttamento con compagnie occidentali di prima grandezza.
In questo caso la strada è spianata per i grandi giochi. Cioè per una competizione disordinata tra potenze che può creare gli scenari confusi cui abbiamo iniziato ad assistere in questi giorni.
Come spiegare altrimenti la fretta francese ed inglese nel riconoscere un’entità incerta come il Consiglio nazionale provvisorio di Bengasi? È l’istinto coloniale di queste ex-potenze che detta le loro mosse, e le spinge a sopravanzare le altre nella ricerca di condizioni di favore per se stesse in una Libia post-Gheddafi.
Un governo provvisorio della Libia può essere facilmente indotto a chiedere un aiuto militare esterno, destinato a trasformarsi in una occupazione militare a tempo indeterminato. L’azzardo francese (con momentanea copertura britannica) può essere allora quello di fare in Libia ciò che gli americani non sono riusciti a fare in Iraq: impadronirsi di un grande produttore di petrolio con una operazione veloce e a basso costo.
Tanto, l’ONU starà a guardare. Il paese europeo con i più consistenti interessi in Libia, l’Italia, non potrà muovere un dito sul piano militare, paralizzato dal ricordo ancora vivo delle atrocità fasciste in quel paese. Con gli Stati Uniti ci si potrà mettere d’accordo a cose fatte, e si potrà competere meglio con i tedeschi per la supremazia in Europa.
La storia ci insegna che questi calcoli non funzionano mai. Negli ultimi due secoli non si è verificato neppure un solo caso di occupazione riuscita di un paese da parte di un altro. Ma è la stessa storia che continua a generare i Sarkozy, ed i miserabili giochi di cui finiscono vittime. L’ Europa della pace è avvisata.