La guerra tra civiltà è una categoria che nasconde conflitti originati da altro. Dal risentimento per le tante vittime civili a Baghdad al controllo del petrolio altrove. Ma la stampa fa finta di no.
l'Unità, 31 dic. 2010
di Pino Arlacchi
La persecuzione anticristiana in corso in Iraq è inspiegabile se non si tiene conto del trauma della guerra del 2003. Molti osservatori rilevano con sorpresa come lo scontro religioso fosse del tutto sconosciuto in Iraq prima dell’ invasione anglo-americana. Cristiani e musulmani professavano liberamente la propria religione, nel solco di una millenaria tradizione mediorientale, all’ interno di uno stato autoritario ma laico, dove un cristiano militante come Tarek Aziz poteva raggiungere i vertici del potere pubblico senza che si prestasse alcuna attenzione alla sua fede.
È stato il terribile shock dell’ occupazione militare che ha letteralmente scassato la società irachena, scatenando una specie di lotta di tutti contro tutti: odi e tensioni irriducibili non solo tra cristiani e musulmani, ma tra sciiti e sunniti, e tra questi ed altre minoranze.
La religione in se stessa non c’entra nulla con le animosità attuali. Se non si tiene conto dell’ immenso risentimento provocato dai bombardamenti e dalle distruzioni belliche condotte in Irak da potenze occidentali e cristiane che hanno fatto a pezzi il paese e lasciato sul terreno 660mila vittime civili, non si capisce nulla di ciò che accade adesso.
Si vedono solo gli effetti perversi di cause sconosciute. Oppure si invocano impulsi primordiali, o inclinazioni violente dell’Islam che datano comunque da secoli, e che non si sa perché siano riaffiorate solo adesso.
Lo scontro di civiltà (e di religioni) è una invenzione nefasta, che continua a venire proposta per interpretare crisi che hanno matrici completamente differenti. La Chiesa cattolica si tiene alla larga da questo concetto, perché ne conosce la pericolosità, e perché è impegnata da decenni in un dialogo interreligioso che sta portando frutti importanti. La Chiesa , perciò, invoca libertà religiosa per tutti, e non solo per i propri fedeli.
In Italia, la promozione dell’idea dello scontro di civiltà è opera soprattutto del “Corriere della sera” e dei suoi editorialisti e collaboratori, che non si stancano di attaccare questa etichetta fuorviante a una congerie di argomenti: dall’ Iraq alla Nigeria, dal Sudan all’ Egitto, dal terrorismo alle migrazioni.
Pochi giorni fa, il Corriere ha pubblicato un articolo di Benny Morris nel quale la guerra civile in atto in Sudan veniva definita come uno scontro di civiltà, e di religioni, tra il Nord arabo e musulmano e il sud nero e cristiano. Quando chiunque conosca anche un po’ la questione sa bene che il vero tema del conflitto è il controllo di una risorsa fondamentale come il petrolio, e che la religione non gioca alcun ruolo autonomo nella contesa. Il Presidente attuale del Sudan è accusato dalla Corte penale internazionale di violazioni che egli avrebbe commesso comunque, dati gli interessi in ballo e la natura del suo potere. Se il Sud del paese fosse stato turco o buddista non avrebbe fatto molta differenza.
Uno scenario analogo è quello della Nigeria, dove da un paio di decenni sono in corso conflitti sanguinosi, che costano ogni anno la vita di centinaia di persone, e che vengono descritti – non solo dal “Corriere”, in verità, ma da gran parte dei media occidentali – come scontri tra cristiani ed islamici. Ma il fattore religioso conta in realtà poco e niente. Il problema è che anche quando l’ autore del reportage, come nel Corriere del 29 dicembre, scrive correttamente che nelle carneficine in atto «non c’è soltanto la religione, ma soprattutto potere e soldi», e quando sottolinea come i «leader religiosi cristiani e musulmani hanno accusato i politici locali di usare la fede per esasperare le tensioni tra le due comunità in vista delle elezioni di aprile», ci si ritrova con il solito titolo degli 80 morti negli scontri religiosi.
Tutto questo non significa negare l’ influenza della religione nei comportamenti della gente. Intendo solo dire che essa non è mai la base esclusiva dell’ identità degli individui. E soprattutto non conduce fatalmente all’ intolleranza e all’ aggressione, come i seguaci di Samuel Huntington e di altri fondamentalisti vogliono farci credere. Decine di esempi storici dimostrano come, lasciati liberi di riunirsi, di pregare ed onorare il loro Dio, né i musulmani né i cristiani né gli altri tendono naturalmente a disprezzarsi e ad attaccarsi. La norma è piuttosto la coesistenza pacifica e il rispetto reciproco.
La rissa scoppia quando entrano in campo i grandi giochi e traumi della storia, oppure gli interessi costituiti e le macchine politiche con il loro corredo di manipolazioni e disinformazioni. La religione ridiventa allora l’ antico pretesto per la sopraffazione, e lo scontro religioso è l’ ultimo anello di una catena che spesso non si vede, ma che va portata alla luce se non si vuole restare intrappolati nell’ inganno.