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Trattativa Stato-mafia: troppe cose non tornano

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l'Unità, 21 dic. 2012

di Pino Arlacchi

Leggo e rileggo carte giudiziarie da più di trent’anni e devo confessare che poche volte mi è capitato tra le mani  un documento così scadente come la memoria dei PM di Palermo sulla cosiddetta trattativa stato-mafia del 1991-92. Non si tratta in effetti di un documento giudiziario, ma di una tirata politica di 26 pagine, che come tale non contiene né indizi né prove.

Salvo considerare prove le dichiarazioni di tre pentiti, gli accordi tra un confidente mafioso e un paio di carabinieri spregiudicati, oppure indizi le perplessità espresse da varie autorità del tempo sulla legge 41bis, il carcere duro per i mafiosi.

Nell’ inchiesta sulla presunta trattativa, le ovvie incertezze nel ricordare episodi e date di vent’anni fa da parte di testimoni incensurati sono diventate  false testimonianze.  E sono state ritenute invece credibili  le dettagliatissime - e proprio per questo sospettabilissime - deposizioni su fatti della stessa epoca fornite da impostori da quattro soldi come Massimo Ciancimino.  O da una sfilza di ex-killer, (Spatuzza and company) che in quanto tali non potevano sedere al tavolo dei negoziati ed hanno perciò parlato per sentito dire.

Chi conosce anche superficialmente queste materie non può non restare sconcertato dalla pressochè completa assenza di riscontri alle dichiarazioni delle  “fonti” di cui sopra. Se non viene corroborata da verifiche solide, raccolte con metodi rigorosi, infatti, la parola di un pentito non vale nulla. E quella di un testimone palesemente falso, imputato di calunnia nel medesimo procedimento, vale ancora meno.

Sulle sole dichiarazioni di Tommaso Buscetta, ai tempi di Falcone-Borsellino, furono effettuate oltre 2300 verifiche investigative, sulle quali su basò in larga parte il maxiprocesso a Cosa Nostra del 1986-87.

Il documento della Procura di Palermo, inoltre, avanza una analisi politica mediocre perché omette ogni riferimento al reale  contesto di quegli anni. Una trattativa mafia-stato degna di questo nome richiede una complessa trafila di intermediari, multipli luoghi di negoziazione, accordi collaterali su impunità minori (false identità, falsi passaporti,ecc.). Richiede una capacità di manipolazione in grado di produrre nomine, sentenze, leggi e provvedimenti volti ad onorare gli impegni scellerati.  Quale autorità politica  con la testa sulle spalle era in grado di fornire simili garanzie nell’ Italia dei primi anni Novanta, un paese sconvolto dalla tempesta Mani Pulite nel Nord e dall’ antimafia di Falcone-Borsellino al Sud?

I vertici di Cosa Nostra, inoltre, erano reduci da una dolorosissima “bruciatura” inflitta loro da un circolo di potere interno allo Stato  - quello andreottiano, composto dai vari Lima, Salvo, amici degli apparati della sicurezza e della Cassazione – che si era rivelato incapace di vanificare l’ esito del maxiprocesso. E contro il quale l’ ira funesta di Cosa Nostra, sotto la regia di pezzi di servizi segreti, si stava ancora scatenando. Questo è quanto sapevamo sul tema nell’ era pre-ingroiana. E non è poco. Mancano ancora alcune responsabilità individuali, ma il disegno della connection è ben noto e accertato.

Ma secondo la Procura di Palermo c’era anche un’ altro club, altrettanto malefico, concorrente a quello andreottiano  che, in quelle drammatiche circostanze, aveva confezionato per Cosa Nostra una proposta  di impunità a raggio ancora più largo di quella appena fallita. Tenetevi forte.

Si tratta nientedimeno che del circolo Scalfaro-Conso-Mancino-Parisi-Di Maggio-Mori-Ciancimino. Un circolo più forte di quello andreottiano, e in grado di comandare alle Procure, ai tribunali, alla Cassazione, alle forze di polizia e alle carceri di quegli anni un trattamento indulgente o assolutorio verso i capi della mafia. In cambio della cessazione delle stragi e del rientro nei ranghi: c’era la Seconda Repubblica da mettere in piedi. La Repubblica di Berlusconi e di Forza Italia, nata proprio dalla trattativa Stato-mafia.

Bene. Per usare un eufemismo, si tratta di una accusa politica grottesca. A parte i fatti specifici a suo sostegno (inesistenti), essa fa scomparire dal palcoscenico il vero elefante di quegli anni: lo scontro inedito, irriducibile, al calor bianco, tra la mafia e il suo scudo politico-istituzionale da un lato, e le forze della legalità dall’ altro, simbolizzate proprio da Falcone-Borsellino. Forze che proprio in quegli anni, dopo aver conquistato l’ egemonia culturale, si affacciavano per la prima volta al governo del Paese. E che dovevano essere fermate ad ogni costo.

Fu il primo governo Berlusconi a fermarle per un pò, è vero. Ma quel governo non era espressione diretta degli ex-caprai di Corleone. Li comprendeva senza problemi,  ma era una  emanazione di poteri illeciti in pericolo più potenti della mafia, nonché il prodotto di un marketing politico superiore. Certo, Cosa Nostra votò in massa per Forza Italia. Ma per chi avrebbe dovuto votare? Per i progressisti di Occhetto, che promettevano di continuare l’azione di Falcone?

E in ogni caso, dopo i nove mesi berlusconiani del 1994, furono esecutivi tecnici e di centro-sinistra a governare il paese  fino al giugno 2001.

Stragi concepite per portare al governo l’ Ulivo, allora? Una mafia così onnisciente da calcolare Berlusconi di nuovo al potere quasi un decennio dopo Capaci? 

Il documento della Procura di Palermo si ferma qui, nel punto di una tesi politica inverosimile. Ma i  danni collaterali prodotti da oltre quattro anni di bombardamento informativo sull’ argomento vanno molto oltre. Persone perbene come Luigi Scalfaro, Giovanni Conso e Nicola Mancino, sono state condannate ad una gogna vergognosa, e mescolate a pregiudicati della risma di Marcello Dell’ Utri.  Le vicende degli anni 91-93 sono state banalizzate e distorte.

Ma c’è di più. La  predicazione mediatica della tesi sulla trattativa fatta a tempo pieno da Ingroia ha generato una schiera di persone convinte in perfetta buona fede che le malefatte del network di potere Scalfaro & soci (quello dei protagonisti della trattativa), succeduto a quello andreottiano, siano oggi coperte da un terzo network. Che è capitanato da Giorgio Napolitano ed è composto da sopravvissuti della Prima Repubblica che vogliono “impedire la ricerca della verità sulle stragi”, “coprire le vere ragioni di Capaci e Via d’Amelio”, ecc. Ingroia stesso ha parlato di “ragion di Stato” che ostacolerebbe le indagini scomode su episodi di venti anni addietro.

La presa di distanza dei colleghi di Ingroia dalle sue indagini, e la sua decisione di tentare il successo politico per difendersi dal probabilissimo insuccesso giudiziario della sua inchiesta, stanno raffreddando le teste più eccitate. Rimane però grave la responsabilità di aver fornito a Berlusconi un solido argomento contro la politicizzazione della magistratura, e di avere indebolito la reputazione di molti inquirenti che rispettano i doveri di riservatezza e di imparzialità della loro professione.

 

 

 
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