l'Unità, 23 mar. 2011
l'Editoriale di Pino Arlacchi
Siamo in un momento molto delicato della crisi libica. A soli tre giorni dall´inizio dell´intervento militare, si impone un cambiamento di rotta.
Determinato da un problema di non poco conto: il rischio che anche questa volta vada a finire come in Iraq e in Afghanistan. Che si finisca cioè col venire risucchiati in una guerra vera e propria.
Se i bombardamenti sulla Libia non vanno verso una rapida conclusione, visto che sia il segretario alla Difesa che il capo di Stato maggiore americano hanno dichiarato che l´obiettivo di distruggere le difese antiaree di Gheddafi è stato raggiunto, la coalizione degli attaccanti rischierà di trovarsi al di fuori della copertura della risoluzione ONU. Nella zona dell´illegalità e dei potenziali crimini di guerra.
La risoluzione autorizza «l´uso di tutti i mezzi appropriati» per proteggere i civili e istituire la no fly zone, ma non permette la guerra, né il rovesciamento o l'uccisione di Gheddafi, e meno che mai la distruzione di obiettivi non militari. E questa è da sempre la linea del Consiglio di Sicurezza.
Non dimentichiamo che neppure in occasione della prima guerra del Golfo del 1991 l'Onu autorizzò un cambiamento di regime ad opera di un intervento militare esterno. E il primo Bush si adeguò al mandato ricevuto, sconfiggendo Saddam Hussein ma astenendosi dal marciare su Baghdad e deporre il dittatore con la forza delle armi.
L'orientamento della comunità internazionale verso la crisi libica, inoltre, è cambiato. Dall'iniziale sostegno verso un intervento volto a fermare le stragi di civili che protestavano contro il regime di Gheddafi, si è passati alla disapprovazione dei raid aerei contro Tripoli perché essi hanno già provocato, e rischiano di provocare, proprio quelle vittime civili che dovevano evitare.
L'Unione africana, la Lega araba, la Cina, la Russia, la Turchia, la Germania, il Brasile, l'India ed una congerie di altre entità stanno chiedendo agli attaccanti e a Gheddafi di cessare l'uso della forza e lasciare spazio ad una soluzione negoziata.
È una buona idea, che Gheddafi deve essere costretto ad accettare. E che i leader franco-britannici devono sottoscrivere.
La strada da percorrere per facilitare la transizione democratica della Libia deve essere coerente con l'essenza della democrazia stessa, che è il metodo della nonviolenza. È per questo che lo zelo della Francia e della Gran Bretagna nel proteggere i diritti umani negati da una tirannia alla quale fino a poche settimane prima vendevano armi in cambio di petrolio non ha convinto nessuno.
Lo spettacolo dei Mirage francesi che colpiscono altri Mirage di proprietà libica, allo scopo magari di farseli ricomprare alla fine delle ostilità, non è stato molto edificante. Come non edificante è stato il ricordo della recente visita del primo ministro Cameron alla fiera delle armi tenutasi ad Abu Dhabi, allo scopo di vendere gli ultimi ritrovati della repressione (Eurofighters e simili) agli emirati medievali del Golfo.
Vale a dire ai prossimi candidati del cambiamento democratico in corso.
Sarebbe un grave errore, infine, non lasciare alcuna via d'uscita a Gheddafi. Il colonnello si è rivelato più forte, per potenza militare ed appoggio dal basso, di quanto molti abbiano pensato. L'opposizione al suo regime, per converso, si è dimostrata debole e poco radicata.
Ma l'appoggio internazionale ai ribelli può fare la differenza e creare una situazione che obblighi il tiranno a trattare. È bene quindi, in un momento successivo, lasciare alle dinamiche interne ed a quelle regionali la ricerca degli sviluppi più opportuni. Riservandosi comunque di intervenire con la forza, in nome della risoluzione ONU, in ogni situazione nella quale sia necessario proteggere le vite dei cittadini libici minacciati.