La Fionda, 7 Maggio 2020
In questi tempi arroventati, si cercano i precedenti della crisi attuale e si discute molto, perciò, di Bretton Woods, la Conferenza del 1944 che ha rifondato l’ordine mondiale. Ma poiché la storia è sempre storia del presente, si trascura spesso di considerare la stretta connessione di Bretton Woods con la Conferenza di San Francisco che portò alla creazione delle Nazioni Unite l’anno successivo. E si trascura di evocare la comune matrice: l’idea del governo mondiale. Una visione che dopo gli anni ’20 del Novecento era diventato molto popolare, promossa dai milioni di iscritti alle varie associazioni che ad essa si ispiravano e condivisa da grandi personalità.
Fu il Presidente Roosevelt a trasformare questa visione in un progetto di governo del mondo a guida americana. Un progetto ultra-utopico, che intendeva estendere al pianeta la formula del New Deal appena sperimentata negli Stati Uniti. La proposta si basava su una narrativa molto precisa della tragedia della prima metà del Novecento: fascismo, nazionalismo e guerre erano stati causati dalle crisi economiche e dalla disoccupazione di massa che avevano afflitto l’Europa e in misura più limitata gli Stati Uniti. Per voltare definitivamente pagina rispetto a questi mali occorreva dar corpo a un sistema sovranazionale di portata mondiale detentore del monopolio della violenza e dei mezzi per esercitarla, nonché di una capacità di governo degli affari strategici del pianeta. Solo così si sarebbe raggiunta la piena occupazione, si sarebbe data stabilità ai rapporti internazionali e si sarebbero prevenute guerre, estremismi e crack finanziari.
Questa visione non venne mai resa esplicita da Roosevelt per non allarmare i membri del Congresso fermamente contrari ad ogni suggestione mondialista. Ma la centralità degli Stati Uniti nel progetto rooseveltiano ben rifletteva le aspirazioni dell’élite del potere americano che aveva combattuto la seconda guerra mondiale non solo per eliminare i nemici, ma anche per costruire le basi di un successivo ordine globale a propria immagine e somiglianza. In poche parole, la proposta rooseveltiana era il progetto politico tra i più ambiziosi della storia umana. Le sue componenti erano tre: a) la creazione di uno stato mondiale con un governo, un parlamento e una Corte di giustizia universali, 2) un regime di regolazione volto ad eliminare il tallone d’Achille finanziario del capitalismo, 3) un vastissimo piano di aiuto economico e di ricostruzione post-bellica, finanziato dagli USA, che avrebbe dovuto includere tutti i paesi del mondo, Cina ed Unione Sovietica incluse.
Non c’era, secondo Roosevelt, un conflitto inconciliabile di interessi tra USA e URSS. Permaneva certo la differenza radicale tra i due sistemi, ma la superiorità complessiva del sistema capitalistico, adesso che la cabina di regia era passata dalle mani meschine degli inglesi a quelle della nazione prescelta da Dio, si sarebbe affermata gradualmente e pacificamente. Il capitalismo americano avrebbe avuto ragione del comunismo senza scontri devastanti. Com’è noto, il progetto rooseveltiano non fu attuato secondo l’ispirazione originaria. Il Congresso USA non manifestò alcuna intenzione di finanziare un’impresa di quelle dimensioni e di quella temerarietà. Un altro ostacolo fu rappresentato dai i venti di guerra fredda che iniziarono presto a soffiare su Washington. Una delle premesse di fondo della politica di Roosevelt era la continuazione del buon rapporto stabilitosi con l’Unione Sovietica durante la guerra e il suo coinvolgimento pieno nel governo postbellico del pianeta. Nella visione del Presidente americano, le Nazioni Unite erano anche uno strumento per evitare che la divisione del mondo in due parti contrapposte inaugurasse un nuovo ciclo di guerra e di instabilità.
La morte di Roosevelt e l’avvento al potere di Truman, “il politicante del Missouri”, pragmatico e anticomunista, accelerò una delle svolte più drammatiche della storia contemporanea. Secondo alcuni studiosi, fu l’esplosione della bomba atomica a Hiroshima e Nagasaki, nell’agosto 1945, autorizzata da Truman, che dette inizio alla guerra fredda. L’ordigno nucleare non fu usato per costringere alla resa un Giappone già sconfitto, ma per intimidire i sovietici, segnalando che gli USA erano detentori di una superiorità militare irraggiungibile. Da allora in poi, la politica americana non ha lasciato ai sovietici altra opzione che questa: l’acquiescenza alle decisioni della potenza egemone, o il confronto con la forza degli USA. L’ avvento di Truman ridimensionò ma non eliminò il progetto di Roosevelt. La creazione dell’ONU, la repressione finanziaria e il dollaro come nuova moneta universale stabiliti a Bretton Woods, e il Piano Marshall varato dopo la morte di Roosevelt sono state le incarnazioni su scala più ridotta delle tre tessere del disegno originario.
L’ utopia rooseveltiana riuscì comunque a prefigurare l’ordine mondiale sotto il quale l’Occidente è vissuto fino ai nostri giorni. Essa generò quelle politiche che hanno portato alla formazione del “mondo libero”, una galleria di nazioni grandi e piccole ma dominate dall’ America, che negli anni successivi al 1945 si sarebbero legate l’un l’altra da vincoli militari, politici ed economici crescenti. Dal progetto originario fu eliminata l’ idea di integrare la Russia nel nuovo ordine e di creare così un mondo unico invece dei tre che ci siamo ritrovati dopo. Tolto l’ impegno verso la pace globale e verso l’ unificazione politica del pianeta, ne derivò anche un ridimensionamento del ruolo delle Nazioni Unite, ma ciò che rimase bastò per aprire una nuova fase dell’ espansionismo americano.
Per la prima parte del dopoguerra, l’ America ha funzionato in effetti come un governo mondiale, ristretto ai soli paesi occidentali ed organizzato attraverso gli strumenti prefigurati da Roosevelt: un potere militare dislocato strategicamente in ogni angolo del pianeta, e rafforzato da alleanze militari regionali nelle zone più prossime alle principali minacce; un sistema monetario basato sul dollaro, e una rete di trattati, organizzazioni e alleanze ruotanti intorno alle istituzioni di Bretton Woods, all’ ONU e agli stessi Stati Uniti. E’ solo nel corso degli anni ’70 del Novecento e dopo il 2000 che questo assetto è iniziato a declinare, prima lentamente e poi precipitosamente.
Non è possibile spiegare la guerra fredda senza far ricorso alla necessità del capitalismo americano di creare o inflazionare minacce allo scopo di espandersi all’ estero, aprendo nuovi mercati e nuove opportunità di investimento per i suoi centri industriali e finanziari. Gli Stati Uniti erano perfettamente coscienti della propria superiorità strategica su ogni altro paese, e dopo il 1945 rifiutarono di negoziare qualsiasi proposta russa di sistemazione complessiva delle questioni controverse. Washington sapeva che eleggendo l’Unione Sovietica a Grande Nemico non avrebbero rischiato una nuova guerra. Quasi tutti i 45 anni della guerra fredda si sono svolti in un clima di crescita degli armamenti americani ed occidentali stimolata da una minaccia largamente esagerata. Un esame anche sommario della dottrina sovietica del tempo avrebbe facilmente concluso che non esisteva alcuna intenzione di provocare una grande guerra né con gli USA né con l’ Europa. I piani sovietici di una invasione a freddo, non provocata, dell’ Europa occidentale non si sono mai trovati, neppure dopo il crollo del comunismo, l’apertura degli archivi russi e la moltiplicazione delle testimonianze. E non si è trovata neanche traccia del famoso first strike, il primo colpo atomico, contro gli Stati Uniti. Già nel 1982 erano disponibili studi che dimostravano come l’ esercito sovietico non sia mai stato nelle condizioni di porre una minaccia credibile alla sicurezza dell’ Europa Occidentale, e come la stessa guerra fredda fosse stata lanciata nella consapevolezza che l’ Unione Sovietica non costituisse un pericolo mortale.
Soffermiamoci adesso su un aspetto. La base dell’ egemonia americana sul “mondo libero” era la capacità degli Stati Uniti di fornire ai suoi alleati un bene di importanza suprema, la protezione. La minaccia di aggressione esterna che aveva creato il bisogno della protezione era – all’ inizio della guerra fredda – largamente inventata. Gli Stati Uniti stessi avevano prodotto sia il pericolo che la protezione. Ma con il tempo si aprì una spaccatura. Mentre in gran parte del pianeta risultava evidente che la minaccia sovietica era gonfiata artificialmente, la stessa minaccia aveva progressivamente assunto in Europa i contorni di un fatto reale, come una specie di profezia che si autoavvera. L’ Unione Sovietica, infatti, aveva colto al volo il messaggio di Hiroshima ed aveva accelerato i suoi programmi nucleari. La prima bomba atomica russa esplose nel 1949. Insieme alla ricostruzione delle infrastrutture e al ripristino della sua capacità produttiva, l’ URSS si imbarcò in un processo di riarmo pesantissimo, che dagli anni ’50 in poi arrivò ad assorbire fino al 15% del suo PIL. Alla fine degli anni ’50 il paese era dotato di un esercito di 4,3 milioni di uomini e di un grande arsenale nucleare, parte del quale rivolto contro l’ Europa.
Anche chi in Europa non credeva ai piani di invasione via terra aveva paura della minaccia missilistica. Per quanto amplificato e distorto, quindi, il pericolo da cui dipendeva il servizio di protezione offerto dagli USA agli stati che facevano parte del “mondo libero”, non era più campato in aria. I paesi europei parteciparono così di buon grado alla costituzione di un vasto esercito multinazionale a guida americana, quello della NATO, allo scopo di fronteggiare un attacco proveniente da Est. Lo sviluppo della guerra fredda, però, aveva anche avuto un altro effetto, di segno ben diverso dall’ accettazione europea della protezione americana. In Asia, in Africa e in America Latina si erano sviluppati nel dopoguerra numerosi movimenti di liberazione nazionale all’ interno del processo di decolonizzazione. L’ occasione fu colta dall’ Unione Sovietica, ed in vari contesti – Cuba e Vietnam in primo luogo – avvenne una saldatura tra le aspirazioni delle elites che cercavano l’ indipendenza del loro paese e gli interessi della superpotenza atomica nascente. Si aprirono così decine di conflitti in ogni angolo del mondo, definiti dagli studiosi come “guerre per procura”. In nome della lotta al comunismo, il governo americano è intervenuto decine di volte all’ estero, sostenendo e rovesciando governi, fomentando azioni antiguerriglia, finanziando colpi di stato, organizzando assassini politici.
Chi parla con superficialità di “impero benevolo” e “riluttante” a proposito dell’ egemonia USA nel dopoguerra, dovrebbe sapere che gli imperi hanno sempre una componente coercitiva, e quello americano non ha fatto certo eccezione. Il suo profilo di governo mondiale, tralaltro, implicava una pretesa di mantenimento non solo della pace internazionale ma anche dell’ “ordine pubblico” interno. L’ esercizio della funzione coercitiva comportò continue violazioni della sovranità dei paesi facenti parte del circolo più ristretto dell’ impero, ma l’ imbarazzo e l’ ostilità per queste violazioni finirono con l’ essere controbilanciati in molti luoghi dalla percezione che gli Stati Uniti, in fin dei conti, agivano come uno stato sopranazionale, che forniva ai suoi membri i beni pubblici cruciali della sicurezza e della pace. In alcune grandi regioni dell’ impero come l’ America Latina, però, dove la minaccia del comunismo sovietico non era mai riuscita a diventare credibile, l’ appoggio degli USA alle violenze di massa ed alle controrivoluzioni scatenate dai locali ceti dominanti contro i movimenti popolari lasciò una scia di risentimento profondo. Ciò ha contribuito a provocare negli anni ‘90, e con ritmo accelerato in questo secolo, una fuoruscita dall’ orbita USA della maggioranza dei governi del continente.
Giovanni Arrighi sostiene che alla base della benevolenza del “mondo libero” verso il Leviatano americano c’era anche un altro fattore: il prezzo imbattibile del servizio offerto. Ai clienti non veniva chiesto altro che di agganciarsi al carro americano nell’ arena politica internazionale, adottare il dollaro come moneta di riferimento e fornire ospitalità alle infrastrutture militari USA. Nessun paese era in grado di offrire sicurezza a un prezzo così basso. La Pax americana riposava su una ricchezza molto più vasta di quella della pax britannica. Nel 1950 nessuna nazione aveva un prodotto lordo che raggiungesse un terzo di quello americano. La spesa militare USA quadruplicò nel giro di soli tre anni, raggiungendo i 50 miliardi di dollari nel 1950 (492 miliardi del 2017) e si accompagnò ad una moltiplicazione delle alleanze e delle basi militari. Nel 1955 gli USA avevano già 450 basi in 36 paesi.
La situazione cominciò a cambiare con i segnali di crisi dell’ egemonia USA dei tardi anni ’60 e dei primi anni ’70. La guerra del Vietnam dimostrò che la protezione statunitense non era così affidabile come gli Stati Uniti pretendevano e come i loro clienti si aspettavano che fosse. La sconfitta del Vietnam fu seguita da una serie di episodi che confermarono l’ erosione della forza militare degli Stati Uniti. Consapevole di non poter prevalere nei conflitti asimmetrici del Libano nel 1983, e del Nicaragua, dell’ Angola, dell’ Afghanistan e della Cambogia negli anni successivi, l’ amministrazione Reagan evitò con cura ogni confronto militare sul campo, agendo dietro le quinte e combattendo tramite intermediari. Negli stessi anni ’80, la teoria dell’ “equilibrio del terrore” si diffuse a livello di massa e contribuì a deflazionare la sensazione di panico verso il potere nucleare russo che aveva attanagliato gli europei nei decenni precedenti. Non solo gli esperti di grandi strategie, ma anche i cittadini comuni cominciarono a chiedersi se per caso le armi nucleari non si fossero neutralizzate da sole, diventando irrilevanti per la sicurezza collettiva. Contemporaneamente, l’amministrazione Reagan intraprese un ulteriore programma di riarmo e un attacco generalizzato alla presenza sovietica e alle forze antiamericane nel Terzo Mondo. L’ offensiva si svolse arruolando una serie di bulli e tiranni locali, tra cui Saddam Hussein, e vari personaggi del fondamentalismo islamico come Osama Bin Laden. Consapevolmente o meno, gli Stati Uniti hanno creato negli anni ’80 i pericoli contro i quali avrebbero poi offerto la loro protezione nei decenni successivi.
Alla perdita di credibilità del potere militare USA, si aggiunsero le conseguenze del crollo del sistema di Bretton Woods seguito alla dichiarazione di non convertibilità del dollaro in oro del 1971, e la perdita del controllo politico dell’ Assemblea Generale dell’ ONU, divenuta una cassa di risonanza delle insoddisfazioni del Terzo Mondo. L’ egemonia americana iniziò a scricchiolare soprattutto a causa delle oscillazioni del suo pilastro commerciale e finanziario. Furono le stesse forze di mercato che erano state stimolate dall’ instaurazione delle regole di Bretton Woods a mostrare la vulnerabilità della Pax americana ai deficit commerciali ed ai movimenti internazionali di capitale. Con Reagan terminarono anche i tempi della protezione a prezzi stracciati. L’ ombrello militare al Giappone, prima quasi gratuito, fu messo su un piatto della bilancia. E sull’ altro fu richiesto a Tokio di ridurre la competizione con gli Stati Uniti e di usare il capitale in eccesso per finanziare il crescente deficit commerciale e di bilancio con gli USA. La stessa richiesta fu fatta agli europei. Ma non in modo esplicito, come fa oggi Trump. Il governo americano decise un rialzo dei tassi di interesse talmente alto da attrarre un gigantesco flusso di capitali verso gli USA, che si trasformarono da maggior creditore a maggior debitore del pianeta. Siamo ormai nella fase di declino dell’Impero. Il governo mondiale è già un ricordo, e la filosofia sottostante si è rovesciata: se la potenza militare americana deve continuare a garantire protezione al “mondo libero”, questo deve fornire agli Stati Uniti il capitale occorrente per la bisogna. Anche quando il pericolo non c’è o è stato creato dallo stesso protettore. Ma la formula scelta trenta anni fa, e perseguita tuttora, presenta sempre lo stesso difetto. Se si sceglie di far finanziare il deficit di bilancio con l’ acquisto di buoni del tesoro USA, non si fa altro che posporre il problema, perché prima o poi i buoni scadono, e perché generano un flusso di pagamenti di interessi a residenti all’ estero che accresce il passivo delle partite correnti.
E’ nel decennio di svolta, cioè nei turbolenti anni ’80, che Washington inizia la trasformazione della protezione legittima in una tipica estorsione mafiosa, dove chi offre il servizio è anche il soggetto che crea la minaccia. Nei decenni successivi il potere americano ha dimostrato sempre più chiaramente di basarsi sui due pilastri del dollaro e del military, a scapito del soft power, il suo evanescente credito morale. All’ inizio di questo secolo, dopo il rinnovato uso della forza in Afghanistan, Iraq, Siria, Libia e Yemen, e dopo un quindicennio di violazioni gravi di diritti umani espressi nell’ uso frequente della tortura, del rapimento e della detenzione senza processo in varie parti del mondo, non restano che poche tracce, anche presso i loro alleati, del prestigio goduto un tempo dagli Stati Uniti. Lo sceriffo buono ha ceduto il posto al Padrino.
https://www.lafionda.org/2020/05/07/gli-stati-uniti-dal-governo-mondiale-alla-protezione-mafiosa/