Su L'Antidiplomatico continua la mia analisi sui rapporti Usa-Iran.
(https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-pino_arlacchi__trump_e_liran_le_prossime_mosse/82_29134/?fbclid=IwAR0AwpEn5ufDl53QI5Kz8XuiHJtRMEe9yDgTUDmjYAEoZjB8XF_M6Oa1jIE)
Trump e l'Iran, le prossime mosse
di Pino Arlacchi | 25 giugno 2019
Senza saperlo (dati i noti limiti della parte più alta del suo corpo), nei confronti dell’ Iran Trump si muove in perfetta sintonia con la logica dell’ estorsione mafiosa che ha mosso il potere americano negli ultimi decenni: creare un pericolo e poi offrire protezione contro di esso.
In uno dei suoi tweet, Trump ha scritto: «La richiesta degli USA all’ Iran è molto semplice: niente armi nucleari e niente ulteriore sostegno al terrorismo».
E questo dopo essere stato lui a 1) spingere l’ Iran verso il programma atomico stracciando l’ accordo concluso da Obama nel 2015 che toglieva di mezzo il pericolo e reintegrava l’ Iran nell’ economia mondiale; 2) infliggere sanzioni volte non a far cambiare rotta al governo ma a distruggere l’ economia di un altro paese; 3) inviare portaerei e bombardieri B-52 nel Golfo Persico; 4) dichiarare il Corpo delle guardie rivoluzionarie, cioè il cuore della forza armata iraniana, una organizzazione terroristica; 5) minacciare un giorno sì e l’ altro pure di radere al suolo il paese.
Nel momento in cui l’ Iran abbatte un drone spia USA che aveva molto probabilmente violato il suo spazio aereo, allora, si grida al pericolo e si minaccia la guerra. Senza rendersi conto di essersi cacciati in un vicolo cieco, perché questa volta nessuno, neppure gli alleati europei ed asiatici più stretti, dichiara di aver bisogno della protezione da un pericolo chiaramente prodotto dallo stesso protettore.
Il resto del mondo sta a guardare incredulo quanto accade in una Casa Bianca dove un Presidente semi-psicopatico, dopo essersi circondato di collaboratori interamente psicopatici, li smentisce all’ ultimo minuto perché in un lampo di lucidità si accorge che un raid militare che sta per partire potrebbe rovinare la sua presidenza e costargli la rielezione.
Visto che solo il 5% degli americani vuole una guerra contro l’ Iran, il Congresso è contrario, e perfino il Pentagono si è pronunciato negativamente.
Con il suo ordine di fermare l’ attacco missilistico all’ Iran, Trump ha segnalato che vuole una pausa nel confronto con quel paese. Ma questo confronto è ormai una guerra ibrida, arrivata al punto che una delle parti deve fare un credibile passo indietro se non si vuole arrivare alla guerra convenzionale.
Ma lo vedete voi l’ Iran di Khamenei, dei Pasdaran e degli Ayatollah, tornati in grande spolvero grazie a Bolton e Pompeo, compiere una retromarcia effettiva?
Per loro, il fatto di avere detto che non vogliono alcuna guerra, di non avere minacciato di rompere ciò che resta del patto atomico, e il fatto di essersi astenuti dall’ abbattere un altro aereo spia americano con 35 persone a bordo, significa aver raggiunto il massimo limite.
La palla, perciò, è nel campo di Trump. C’è chi gli suggerisce di fare qualche vero gesto di pace, come esentare Cina, India, Turchia e ogni altro acquirente dalle sanzioni contro i compratori del petrolio iraniano, ed invitare i leader iraniani ad incontrarsi in un luogo neutrale. Oltre che licenziare Bolton e Pompeo.
Dopotutto Trump ha già chiesto più volte, anche se con toni e termini poco accettabili, di discutere faccia a faccia con gli iraniani del suo accordo nucleare, ovviamente più vincolante di quello di Obama, da presentare all’ elettorato come il maggiore risultato della sua presidenza.
Si tratta di un’eventualità che è possibile, certo. Ma non so dire quanto sia probabile.
Su Il Fatto Quotidiano di oggi una mia riflessione sul perché - nonostante le continue minacce da parte degli Stati Uniti - non ci sarà una guerra contro l'Iran.
(https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2019/06/25/perche-non-ci-sara-la-guerra-alliran/5279943/?fbclid=IwAR3nIbOIKs2oGiJwfvq-FGxGSu-OqhpOvPgs7ubOMiuAZxe1RCh1tA1ftJU)
Perché non ci sarà la guerra all'Iran
di Pino Arlacchi | 25 giugno 2019
Non ci sarà una guerra contro l’Iran. Ma non ci sarà neppure la pace. Gli Usa non attaccheranno l’Iran nei modi della guerra classica seguiti l’ultima volta in Iraq e Afghanistan – attacco aereo, invasione di terra, cambio di regime, amministrazione proconsolare o a delega stretta. Non lo faranno per una serie di motivi, il maggiore dei quali è che il complesso militare-industriale americano sa di aver raggiunto il limite massimo possibile del suo budget e ha come obiettivo strategico la propria perpetuazione e non l’espansione. Il Pentagono e le industrie della difesa frenano durante le crisi perché hanno bisogno della minaccia della guerra ma non della guerra vera e propria. Anche perché sono consapevoli che, se la fanno, questo tipo di guerra, è certo che la perdono.
I conflitti mediorientali recenti sono stati un secondo Vietnam, togliendo ogni dubbio circa il fatto che la forza armata più costosa del mondo non è in grado di vincere alcuna guerra, né convenzionale né asimmetrica.
La potenza di fuoco americana è senz’altro capace di radere al suolo un Paese – vedi Iraq 1990 e 2003 – provocando milioni di vittime e danni giganteschi. Oppure può terminare l’annientamento di una nazione già quasi distrutta da infinite guerre civili come l’Afghanistan. Ma se il fine della guerra è quello di piegare ai propri voleri la volontà di un nemico, le avventure militari Usa degli ultimi decenni sono state tutte delle sconfitte senza appello.
L’invasione dell’Iraq è servita solo a produrre un governo filo-iraniano. Quella dell’Afghanistan ha perpetuato i talebani, e ci si trova ora costretti a fare con loro un negoziato che si poteva fare 22 anni e un milione di morti fa. La guerra coperta contro Assad è terminata con Assad saldamente in sella, con mezzo milione di vittime e con gli indecenti postumi dell’essere andati ancora una volta a letto col diavolo sunnita nel tentativo di vincerla. La Libia post-Gheddafi, poi, da nazione più ricca dell’Africa, è diventata, dopo la cura Obama-Sarkozy, una landa desolata, preda di signori della guerra e terroristi di ogni risma.
Queste semplici verità sono sotto gli occhi di tutti, e sono state una delle matrici principali della vittoria di un presidente presentatosi come non-interventista come Trump. Il quale sa che un attacco-invasione dell’Iran, o del Venezuela o di qualunque altro Paese, gli costerebbe la rielezione.
Tutto ciò può sembrare una buona notizia, ma lo è solo in parte. L’alternativa che si profila non è la crescita della pace. La guerra convenzionale viene sempre più sostituita da quella ibrida, cioè da un misto di uso della forza, sanzioni economiche devastanti, disinformazione e lotta informatica su vasta scala.
Il Venezuela degli ultimi tre anni è stato un test eloquente. Gli Stati Uniti hanno aggredito il Paese con tutti i mezzi possibili, eccetto l’intervento militare diretto. E continuano ad assediarlo nell’intento di farne crollare il governo socialdemocratico e appropriarsi delle sue ingenti risorse. La guerra ibrida contro il Venezuela è stata preceduta da quella contro Cuba e l’Iran, iniziate la prima negli anni 60 e la seconda nel 1979. I risultati sono stati l’opposto di quelli voluti da Washington, perché le sanzioni hanno consentito ai governi dei due Paesi di rimanere in carica per 60 anni in un caso e 40 anni nell’altro. Ma è questa la strada che Trump e l’America intendono percorrere anche nel prossimo futuro. Dobbiamo aspettarci, perciò, per quanto riguarda l’Iran, un misto di sporadici raid e attacchi aeronavali Usa, e sanzioni e pressioni più pesanti volti al vano scopo di rovesciare il regime e gettare il Paese nel caos.
La tensione contro l’Iran aiuterà a stabilire quel grado di allarme che è necessario per giustificare il mantenimento dell’attuale, mostruoso, budget militare e dell’intelligence Usa. Ma il suo principale effetto sulla politica iraniana sarà di spianare la strada a una dittatura dei Guardiani della rivoluzione dopo avere archiviato Rouhani, riforme, spinte democratiche e accordo nucleare del 2015.
Il problema della guerra ibrida, infatti, è che essa finisce col dimostrarsi uno strumento ancora più inefficace della guerra convenzionale. Vari studi hanno dimostrato come la prima, soprattutto tramite la componente sanzioni, possa essere altrettanto crudele della seconda verso la popolazione civile. La guerra ibrida finisce regolarmente col rafforzare le tendenze nazionaliste dei Paesi presi di mira, dando tempo ai governi colpiti di costruire mezzi di protezione interna e alleanze internazionali in grado di neutralizzare sanzioni e disinformazione. E oggi, in un mondo multipolare, queste alleanze sono molto più numerose e praticabili che in passato. Il rischio che gli Stati Uniti impieghino altri 50 anni per imparare anche questa lezione rimane tuttavia molto alto.
Con questa riflessione su Trump e la criminalità organizzata riprendo la mia attività dopo una breve interruzione dovuta a un soggiorno in Venezuela e ad una serie di impegni accademici all’estero.
Su Il Fatto Quotidiano di oggi potete trovare una versione più corta (https://www.ilfattoquotidiano.it/…/trump-il-bullo-…/5265390/) del testo qui di sotto.
Trump, il bullo che si vede padrino
di Pino Arlacchi | 19 giugno 2019
Nei media più critici, l’accostamento di Donald Trump a un boss della mafia è diventato quasi un luogo comune, ma fa comunque una certa impressione vedere stampata sul Financial Times la faccia di Trump con gli stessi lineamenti di Marlon Brando ne “Il Padrino”.
«Il suo modo di condurre la politica estera, la sua enfasi sulle relazioni personali tra i boss, il senso che ci si può fidare solo dei membri della famiglia, la capacità di passare bruscamente dalle affettuosità alle minacce, e viceversa; la tendenza a trattare le alleanze come una forma di protezione estorsiva - ‘paga se no smettiamo di proteggere il tuo quartiere’; l’inclinazione a fare offerte che non possono essere rifiutate» sarebbero la quintessenza dello stile di governo di un ex-palazzinaro e proprietario di casinò diventato Presidente degli Stati Uniti (https://www.ft.com/con…/f5c048c8-8b58-11e9-a1c1-51bf8f989972).
Da un punto di vista, diciamo così, tecnico, Trump in realtà assomiglia più a un gangster, a un bullo metropolitano, piuttosto che a un autentico Don Vito Corleone.
Ho descritto altrove, per bocca di Tommaso Buscetta, la tragica fine per mano mafiosa di una stella filante della malavita milanese degli anni ‘60 come Francis Turatello, padrone anche lui di casinò (clandestini). «Turatello era il tipico gangster: sbruffone, estroverso, spendaccione...Amava il lusso, la bella vita, le donne. Era un megalomane: l’ esatto opposto del mafioso...non era esperto nell’arte mafiosa di dissimulare e di tradire. Era un ribaldo che affrontava ogni cosa di petto» (Addio Cosa Nostra, pag. 220, Chiarelettere, 2019). La sua sfida a Cosa Nostra terminò in un supercarcere della Sardegna a causa di un alterco avvenuto cinque anni prima in una bisca con Alfredo Bono, un vero uomo d’onore.
Trump sta all’ odierno deep state americano come Turatello sta a Bono: Appartengono alla stessa matrice sopraffattoria, ma con profili divergenti. L’impero americano, come Cosa Nostra, è un freddo manufatto egemonico. Un Presidente alla Don Vito non si perde in stravaganze e in eccessi bullisti. Non dichiara di averlo più grosso di quello del Presidente della Corea del Nord, e di essere pronto al genocidio atomico contro Pyongyang, per poi sedersi a negoziare come se nulla fosse accaduto.
Un Presidente davvero mafioso reclama obbedienza dal resto del mondo perché pretende di fornire un bene comune supremo, la tutela da un nemico mortale. E’ questa l’offerta che non può essere declinata.
Ma l’affinità tra il potere americano degli ultimi decenni con il metodo mafioso di dominio si estende anche a un altro aspetto cruciale: entrambi pretendono di proteggere da minacce che essi stessi hanno creato.
Ma andiamo per gradi.
Dopo la seconda guerra mondiale gli Stati Uniti hanno avanzato ai paesi alleati un’offerta di stabilità e di pace garantita da un’offerta di difesa contro un nemico ritenuto molto potente: l’Unione Sovietica, portatrice di una proposta di governo mondiale alternativa ed espansionista.
Il pericolo si è rivelato enormemente gonfiato, perché la superiorità economica e militare degli USA è stata schiacciante fin dall’inizio, e perché i piani sovietici di un’invasione dell’Europa Occidentale non si sono mai trovati, neppure dopo il crollo del comunismo, l’ apertura degli archivi e la moltiplicazione delle testimonianze.
Ma per quanto esagerata, la minaccia da cui dipendeva la protezione offerta dagli Stati Uniti venne ritenuta credibile, ed i missili sovietici puntati contro l’Europa la trasformarono in una classica profezia che si autoadempie.
I paesi europei parteciparono perciò di buon grado alla costituzione di una forza armata multinazionale a guida americana, la NATO, per difendersi da una possibile invasione.
Il prezzo del servizio di protezione offerto dagli USA, d’altra parte, era imbattibile. Non c’era alcuna tassazione diretta. Tutto ciò che veniva chiesto agli alleati era di adottare il dollaro come valuta degli scambi con l’estero, accettare quelle limitazioni di sovranità che erano indispensabili per l’esercizio della tutela, ed agganciarsi al carro americano in politica estera.
Ma già prima del crollo del comunismo, già all’inizio degli anni ’80, l’amministrazione Reagan iniziò la trasformazione della protezione legittima in una tipica estorsione mafiosa, dove chi offre il servizio è anche il soggetto che crea la minaccia. Venne messo in piedi un colossale programma di riarmo contro un’inesistente supremazia militare sovietica, accompagnato da un offensiva nel Terzo mondo che si svolse arruolando una serie di tiranni locali, tra i quali Saddam Hussein, assieme a varie entità del fondamentalismo sunnita che sarebbero diventati poi il saudismo wahabita, Osama Bin Laden, i Talebani, Al Qaeda, l’ISIS e simili.
Dopo il 1989 è venuto meno il bisogno del gendarme mondiale, ma la pretesa di protezione americana è proseguita. Consapevolmente o meno, ma in perfetto stile Cosa Nostra, gli Stati Uniti avevano creato negli anni ’80 i pericoli da cui hanno preteso di difenderci nei decenni successivi e fino adesso.
Tutto ciò a scapito del soft power, l’autorità morale goduta dagli USA in passato, ed a vantaggio dei due pilastri attuali dell’ impero: il dollaro e la forza armata.
Ci si può allora meravigliare se si è ormai consolidata un’opinione negativa sul ruolo che gli Stati Uniti giocano nel mondo? Secondo il sondaggio ripetuto dal Pew Center sin dal 2013, i cittadini di 68 paesi considerano gli Stati Uniti come la più grande minaccia alla sicurezza mondiale.
Il doppio bluff di Juan Guaidò nella partita tra Usa e Maduro
di Pino Arlacchi | 3 maggio 2019
(https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2019/05/03/il-doppio-bluff-di-juan-guaido-nella-partita-tra-usa-e-maduro/5150545/?fbclid=IwAR3Isi3sL0jOi9DsinQx-MRRJTsUTl1f5OqJZkxjvPm5GEDxrNHelBjgoiY)
Siamo tutti Guaidó. Ma per quale ragione? Devo confessare che, visti gli ultimi sviluppi, sono dilaniato da un dilemma: siamo proprio sicuri che Guaidó abbia lavorato per gli Stati Uniti? E se lo abbia fatto invece per Maduro? O per tutti e due? Il cruccio non è retorico. Se si risale con calma lungo la catena degli eventi degli ultimi tre mesi, il giudizio sul personaggio si biforca: le azioni compiute da Guaidó contro il governo di Caracas sono quelle del solito “combattente della libertà” stile Berlusconi della prima ora allevato dall’intelligence Usa e gettato nella scena politica del Venezuela non appena in grado di camminare. Ma se riflettiamo sui risultati effettivi delle sue azioni, il dubbio che si tratti di un diabolico manufatto chavista rifilato alla Cia con lo scopo ultimo di giocare per Maduro diventa davvero molto intenso.
Esaminiamo allora le tre tappe della breve vita di Juan Guaidó, dalla sua nascita con l’autoproclamazione a presidente nel gennaio passato, al suo mesto trapasso del 30 aprile su un cavalcavia di Caracas. Il ruspante ingegnere si presenta davanti alla congrega Bolton-Rubio-Pompeo come una specie di Fidel Castro della destra in grado di infiammare le piazze e di condurle alla conquista del palazzo presidenziale con la complicità di gran parte delle forze armate, ormai stanche della tirannia chavista e decise a battersi… per la democrazia. A nessuno degli strateghi di Washington viene il sospetto che si tratti di un mitomane in preda a delirio di onnipotenza, e invece di sottoporlo alla macchina della verità o invitarlo a fornire prove dei suoi poteri carismatici, credono alle sue balle, lo incoraggiano ad autoproclamarsi presidente e lo riconoscono senza indugio come tale alla fine di gennaio.
Gli strateghi sono certi che il resto del mondo non farà molte storie sulle credenziali di Guaidó e accetterà in massa il loro invito a riconoscerlo come nuovo presidente del Venezuela. Il trio trumpiano si siede allora in prima fila, popcorn in mano, e attende le folle osannanti, la caduta della dittatura e la pioggia di approvazione universale verso l’autoproclamato. Ma le folle non si presentano, l’esercito resta leale a Maduro e solo 50 su 192 Paesi membri dell’Onu – gli stretti alleati e clienti degli Usa – accolgono l’invito a incoronare il novello Castro-Bolivar. Il flop è clamoroso sotto un triplice profilo: come prova della reale consistenza di Guaidó, come test della residua influenza globale del potere americano, e come dimostrazione del consenso di Maduro presso esercito e popolazione. Ma il fiasco viene fatto passare come una sentenza di primo grado, e si stabilisce che il giudizio di appello avvenga il 23 febbraio, al confine con la Colombia. Con la scusa di far entrare in Venezuela, con le buone o con le cattive, alcuni camion di aiuti umanitari americani, Guaidó e i suoi avrebbero dovuto far confluire sul posto alcune centinaia di migliaia di persone con le quali avrebbero soverchiato le forze governative schierate per impedire la provocazione, per poi marciare su Caracas tra ali di folle benedicenti e uno scoppiettio di insurrezioni spontanee.
Ma quando si dice la sfortuna. Anche in questo caso, all’appuntamento non si presenta quasi nessuno e l’evento viene condannato dall’Onu, dalla Croce Rossa e dalle agenzie umanitarie come una violazione del canone fondamentale della non politicizzazione dell’aiuto umanitario. Alcune bande di seguaci di Guaidó vengono rovinosamente fotografate dal New York Times mentre lanciano molotov contro i convogli di aiuti allo scopo di far ricadere la colpa sul governo di Caracas.
Il doppio fiasco dimostra che il cambio di regime è una strada impraticabile e mette a nudo l’impostura del “cocco” della Cia, ma ormai è troppo tardi per buttarlo a mare e per impedirgli di continuare nella sua opera di consolidamento di fatto dell’odiato regime comunista.
Gli “Strateghi Supremi” passano allora a una più dimessa linea di riduzione del danno Guaidó. Lo invitano a stare calmo e aspettare un po’. Trump ha introdotto sanzioni letali che faranno cadere Maduro in poche settimane. E si sarebbe spacciato Guaidó come causa principale della débâcle.
Ma “Il liberatore” non abbocca. Deve proseguire la sua missione a favore della democrazia venezuelana (a questo punto quale? Quella di Bolton/Taiani o quella di Maduro?), e chiede ai suoi ormai costernati sponsor un ricorso in Cassazione. Che consiste nel simil golpe tragicomico del 30 aprile. Azione comunque temeraria e resa incruenta dall’astensione del governo dall’uso della forza. Ma azione rivelatasi infine un assist decisivo a Maduro e un finale di partita per il suo promotore.
In conclusione, tutti noi, combattenti per la democrazia altrui, maduristi e trumpiani, dobbiamo molto al defunto liberatore del Venezuela. Siamo tutti Guaidó. Il sacrificio di questa stella cadente della libertà consente oggi a Maduro di aprire all’opposizione interna dotata di cervello e oscurata finora dagli eversori. Apertura che si estende alle proposte di mediazione e di soluzione democratica della crisi avanzate da vari soggetti internazionali, tra cui l’Italia e il Vaticano.
Questo è il mio contributo - pubblicato questa mattina su Il Fatto Quotidiano - contro la valanga di disinformazione che i media mainstream stanno rovesciando sul Venezuela.
(https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2019/05/01/arlacchi-caracas-e-una-citta-tranquilla-maduro-e-piu-forte/5146614/?fbclid=IwAR2UA0pqOBZ6FTPsd06Di7je3sIEFD1kafReZ0W7CSoEwl__M6xaH6E_f-A)
Arlacchi: "Caracas è una città tranquilla, Maduro è più forte"
di Salvatore Cannavò | 1 maggio 2019
Pino Arlacchi, ex vicesegretario generale delle Nazioni Unite, soggiorna in un albergo del centro della Capitale. Non è lontano da piazza Altamira in cui si è concentrato Guaidó con i suoi sostenitori. “In realtà è un luogo simbolo della destra estrema dei guarimbas, le squadre dei bulli dei quartieri alti che assaltano i cortei popolari picchiando, bruciando e sparando”.
Dalla sua osservazione privilegiata Arlacchi assicura che a Caracas non si è verificato nessun golpe, nessuna insurrezione e che la città è tranquilla. “Forse possiamo parlare di un tentativo di provocare la reazione del governo Maduro per offrire un pretesto agli Stati Uniti, ma niente più di questo”.
Il suo racconto, raccolto intorno alle 14 locali, è netto: “I fatti importanti si sono svolti dalle 3 alle 5 del mattino quando Guaidó si presenta in piazza con Lopez, uno dei capi dei partiti di opposizione accusato di banda armata per aver guidato i guarimbas. Lopez era agli arresti domiciliari, prosegue l’ex deputato europeo, che occorre dire sono molto blandi nonostante a infliggerglieli sia stata quella che viene definita una “feroce dittatura”. Guaidó e Lopez si sono così presentati insieme a un gruppo molto piccolo di militari in assetto di guerra e con due autoblindo dietro le spalle. Solo che non è successo nulla e alle 8.30 era tutto finito. Nessun sollevamento né nell’esercito né nella popolazione. Nessun altro atto di nessun tipo. Il mini-golpe è stato invece trasformato in una manifestazione verso il palazzo di Miraflores, quello del governo, ma i manifestanti non sono arrivati nemmeno a un chilometro dall’edificio”.
Mentre parliamo, siti e tv di tutto il mondo danno conto di manifestazioni attaccate da autoblindo della polizia regolare, ma Arlacchi sorride: “Personalmente ho attraversato la città senza incontrare alcun ostacolo tranne due posti di blocco. Alle 13 era tutto finito. Il capo delle forze armate ha dichiarato il sostegno totale al presidente in carica”. Quindi cosa è accaduto veramente, quali sono le intenzioni di Guaidó, chiediamo: “Guaidó ha pensato di innescare una reazione forte del governo di Maduro per poter scatenare l’intervento americano. Solo che ha manifestato una chiara debolezza e i soldati non lo hanno seguito. In città non c’è nessuna atmosfera di tensione e in definitiva se il tentativo era quello di stimolare una reazione del governo, questa non si è verificata”. A questo punto, osserva l’esperto di questioni internazionali, in Venezuela per un’attività legata alla lotta alle mafie, la palla può davvero passare al governo in carica. “Il golpe fallito, a mio giudizio, ha rafforzato moltissimo Maduro mostrando la solidità del suo rapporto con l’esercito e l’inesistenza di una insurrezione popolare. Credo che Maduro potrà fare un’apertura verso l’opposizione che non si riconosce pianamente in Guaidó, accettando le proposte di dialogo e di organizzazione di nuove elezioni che vengono dal Vaticano, dall’Italia e da alcuni paesi dell’America latina. Ma anche dalla Ue, come mi sembra di vedere dalle dichiarazioni della portavoce Ue. Maduro esce illeso e rafforzato dall’episodio”.
Per quanto riguarda la popolazione, poi, pur trovandosi in presenza di una crisi “gravissima”, Arlacchi nega che ci sia una situazione drammatica: “Caracas è una città tranquilla, ci sono generi alimentari, non ci sono persone che muoiono dalla fame. Certo, c’è una gravissima crisi economica e sociale che è determinata dalle sanzioni economiche americane che tagliano le medicine. Il rapporto Sachs spiega molto bene che negli ultimi due anni a seguito delle sanzioni sono morte 40 mila persone in più soprattutto per la mancanza di medicine come l’insulina o i farmaci anti-Hiv. Il governo ha i soldi per comprare ma le banche internazionali si rifiutano di processare le transazioni. L’arma delle sanzioni può essere molto pericolosa”. Anche sugli scontri in piazza il sociologo invita a essere più sobri nei commenti: “La Guardia nazionale del Venezuela per dettato costituzionale non può portare armi in manifestazioni pubbliche né usarle. La polizia nazionale ha le armi ma può utilizzare solo proiettili di gomma. Sono i gruppi armati delle opposizioni che utilizzano le armi per uccidere. E in genere il bilancio di morti è a svantaggio della polizia”. Infine la richiesta all’Unione europea e agli Stati occidentali di “ritirare qualsiasi sostegno a Guaidó. Uno che utilizza così disinvoltamente la minaccia di golpe non può avere alcuna credibilità. Del resto si pensi che in Catalogna gli indipendentisti sono in galera senza aver compiuto nessun atto di violenza, mentre Guaidó si autoproclama presidente, promuove scontri di piazza e gira libero tranquillamente. Chi è davvero l’interlocutore più credibile?”.
Su Il Fatto Quotidiano di oggi ho pubblicato la seguente analisi sulle origini della crisi libica che tenta di fornire una ricostruzione degli eventi che buca la cortina di disinformazione e falsità sulla caduta di Gheddafi calata dai media e dai governi occidentali. Questo lavoro mi è costato molto tempo e fatica. Spero ne sia valsa la pena. Ai miei lettori il giudizio.
(https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2019/04/21/libia-lintervento-nato-che-bombardo-la-ragione/5126658/)
Libia, l'intervento NATO che bombardò la ragione
di Pino Arlacchi | 21 Aprile 2019
L’attacco alla Libia del 2011 è forse il più lampante esempio dell’inganno che si nasconde dietro gli interventi umanitari e di promozione della democrazia intrapresi di recente e progettati per il futuro.
Come nel Kosovo 12 anni prima, i bombardamenti NATO in Libia furono giustificati con l’urgenza di impedire uno sterminio di innocenti. Secondo l’allarme lanciato dai media e dai governi europei le truppe di Gheddafi stavano per compiere un bagno di sangue a Bengasi, l’ultima roccaforte dei ribelli antigovernativi ispirati dalla Primavera araba. L’intervento militare fu rapidamente autorizzato dal Consiglio di Sicurezza.
Il suo scopo doveva essere quello di salvare le vite di migliaia di dimostranti per la democrazia dalla brutalità delle forze armate di Gheddafi, composte in larga parte da mercenari di pelle scura che si erano macchiati di stupri di massa. L’aviazione del regime aveva usato elicotteri d’assalto e caccia da combattimento per falciare civili inermi, ed erano già perite migliaia di persone.
Due giorni dopo l’autorizzazione ONU del 17 marzo 2011, fu stabilita la no-fly zone e la NATO iniziò a bombardare. Grazie al martellamento aereo, e al sostegno logistico dei paesi europei, dopo solo sette mesi i ribelli avevano assunto il controllo della Libia ed eliminato fisicamente Gheddafi.
Il successo dell’operazione sembrava totale. Media e capi di governo europei - gli stessi che fino a pochi mesi prima si erano scambiati baci e abbracci con Gheddafi durante le sue suggestive visite di Stato - erano inebriati per esserselo tolto di mezzo.
Con l’operazione libica si era riusciti a difendere la Primavera araba, evitare un genocidio stile Srebenica e creare le premesse di migliori rapporti tra Libia e Occidente.
Ma il verdetto si è rivelato prematuro. Ad un esame retrospettivo, l’intervento in Libia è stato un miserevole fallimento. Non solo la Libia non si è trasformata in una democrazia ma è diventata uno stato fallito.
Dal 2011 in poi abbiamo visto susseguirsi in quel paese una decina di primi ministri e governi, per non parlare dei due parlamenti e della frammentazione tribale. Dopo otto anni di caos e di tragedie, il paese più ricco dell’Africa, abitato da una popolazione ben istruita e ben nutrita, è divenuto una landa desolata e senza legge, nella quale scorazzano bande di delinquenti e terroristi di ogni risma.
La giustificazione dei sostenitori dell’ingerenza armata è la solita: non c’erano altre strade percorribili. Non è vero. Anche questa volta, la migliore cosa da fare era di non intervenire del tutto.
Le menzogne fabbricate per favorire la guerra contro la Libia sono state smentite dagli osservatori indipendenti presenti sul posto, che non hanno trovato alcuna traccia degli stupri di massa. Non si è trovato un solo mercenario al soldo di Gheddafi, e sia il segretario alla difesa USA, Gates, che il chairman del Joint Chief of staff, Mullen, hanno testimoniato di non avere avuto alcuna conferma dell’esistenza di aerei di Gheddafi impiegati per fare strage di civili. Si sono potute confermare solo 110 vittime a Bengasi, distribuite tra le parti in lotta.
Dove sono finite,allora, le migliaia o le decine di migliaia di morti sbattuti in prima pagina dai giornali occidentali? Da nessuna parte, perché sono esistite solo nella fantasia dei cronisti e degli inviati “embedded “, cioè dei manovali dell’inganno.
In Libia orientale, si sono documentate solo 233 morti durante il primo giorno degli scontri, e non le 10mila riportate dalla TV saudita Al Arabya e citati poi dai media euroamericani. La pioggia di bombe lanciate dall’aviazione di Gheddafi all’inizio del 2011 su Bengasi e Tripoli,poi,fu inventata di sana pianta.
Nel mese precedente l’Intervento NATO le perdite totali in Libia, tra civili, soldati e ribelli, ammontavano a circa 1000 persone. Il numero così basso si deve al fatto che le forze governative si erano astenute dalla violenza indiscriminata, avevano assunto come bersaglio solo i maschi combattenti e si erano sforzate di risparmiare i civili.
D’accordo, si potrebbe dire. Ma si può negare che Gheddafi abbia minacciato il bagno di sangue se i ribelli di Bengasi non si fossero arresi?
Certo che si può negare, perché è l’esatto contrario di quanto avvenuto. Il 17 marzo Gheddafi si era impegnato a proteggere la popolazione civile di Bengasi ed aveva offerto ai ribelli di lasciare loro aperta una via di ritirata in Egitto. Il suo impegno era credibile perché nelle settimane precedenti le sue forze avevano riacquistato il controllo di tutte le altre città libiche senza compiere massacri di civili.
Il genocidio degli abitanti di Bengasi fu pura propaganda, confezionata dagli espatriati anti-Gheddafi in Svizzera, e bevuta pari pari dai media nostrani smaniosi di sguazzare entro le emozioni forti della guerra e del sangue.
Ma l’intervento NATO ribaltò le sorti dello scontro. Ed i combattimenti divennero più sanguinosi perché le milizie sostenute dalla NATO si abbandonarono ad atti di violenza incontrollata, e continuarono ad usarla in ostilità reciproche che si prolungano a tutt’oggi. Poiché la stima corrente è di circa 11mila vittime totali, e le perdite prima dell’attacco NATO erano di 1000 vite umane, quest’ultimo ha accresciuto di 11 volte il pedaggio pagato dai libici all’intervento dei “liberatori” occidentali.
Nonostante perfino Obama abbia riconosciuto che l’aggressione della Libia è stato un errore, ci sono ancora dei fan delle bombe umanitarie che sostengono che il non intervento avrebbe lasciato Gheddafi in sella peggiorando le cose.
Questi “esperti “ ignorano che era in corso una transizione, preparata da vari anni dal figlio di Gheddafi, Saif, strutturata intorno ad una serie di riforme in direzione di libere elezioni, una nuova costituzione, e una serie di ammende rispetto ai traumi del recente passato.
Saif aveva convinto il padre a fare un’ammissione di colpa per il massacro nelle prigioni del 1966 e a risarcire le famiglie di centinaia di vittime. Tra il 2009 e il 2010 Saif aveva ottenuto il rilascio di quasi tutti i prigionieri politici della Libia ed aveva creato un programma di deradicalizzazione per gli islamisti che gli esperti occidentali citavano come un modello.
È ovviamente impossibile sapere se Saif avrebbe dimostrato la capacità di trasformare la Libia, ma egli sembrava deciso ad eliminare le più eclatanti storture del regime paterno.
Nel corso dei bombardamenti NATO, lo stesso Saif tentò di intavolare una trattativa con esponenti di governi i cui capi avevano mostrato grande amicizia verso il padre, ma fu catturato e imprigionato dalle milizie filo-NATO. Come in Iraq e nel Kosovo, quindi anche in Libia la ragione dei bombardamenti è finita col coincidere con il bombardamento della ragione.
In questa riflessione pubblicata stamattina su Il Fatto Quotidiano delineo i possibili sviluppi della situazione in Venezuela, e sottolineo come molto dipenda dalle scelte di Cina e Russia nonchè dalla volontà del governo Maduro di mettere in piedi un piano di sicurezza alimentare.
(https://www.ilfattoquotidiano.it/…/il-venezuela-ne…/5091026/)
Il Venezuela nella morsa di Trump
di Pino Arlacchi | 6 Aprile 2019
È inutile illudersi che lo scontro tra Stati Uniti e Venezuela arrivi a una veloce resa dei conti. È vero che le opzioni che Trump aveva a disposizione fino a qualche mese fa si sono ridotte. L’operazione Guaidó è stata preceduta da una vasta campagna mediatica tesa a convincere tutti – a cominciare dagli stessi venezuelani – che i guai del Venezuela non derivano dalle feroci sanzioni americane e dal crollo del prezzo del petrolio ma sono esclusiva opera del governo Maduro. Questa campagna è culminata nell’autoproclamazione di Guaidó a presidente ed è fallita.
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La mia analisi su Cina, Asia Orientale e Via della seta continua con questo contributo pubblicato oggi da Il Fatto Quotidiano.
(https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2019/03/27/leconomia-reale-e-sulla-via-della-seta/5065201/)
L'economia reale è sulla Via della Seta
di Pino Arlacchi | 27 Marzo 2019
È inutile minimizzare, e ridurre quanto accaduto nei rapporti tra Italia e Cina a un semplice scambio di cortesie commerciali e di finezze su Marco Polo e Matteo Ricci (il gesuita del 500 divenuto mandarino cinese). Una volta tanto, i governanti italiani l’hanno azzeccata in pieno, entrando per primi nel più grande gioco geopolitico messo in piedi dai tempi della Conferenza di Bretton Woods del 1944 in poi, e dalla fondazione delle Nazioni Unite l’anno dopo.
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Di seguito potete trovare il mio contributo alla discussione sulla Via della Seta pubblicato ieri mattina sul Il Fatto Quotidiano.
(https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2019/03/21/cina-e-via-della-seta-o-dellignoranza/5052482/)
Cina, è Via della Seta o dell'ignoranza?
di Pino Arlacchi | 21 marzo 2019
La visita del presidente cinese per la firma dell’accordo sulla “nuova via della seta” ha dato luogo a un dibattito politico-mediatico inconcludente e povero di contenuti. Anche chi difende le ragioni dell’accordo dimostra una conoscenza a dir poco incerta delle sue premesse e delle sue implicazioni. Ciò si deve a un fondamentale vuoto di conoscenza sulla Cina che viene sostituito da uno schema mentale tanto facile quanto sbagliato: Cina eguale a Stati Uniti. Il Paese di Xi Jinping è – per la quasi totalità dei commentatori italiani di politica estera e per gli sprovveduti leader dell’opposizione e del governo – nient’altro che una replica autoritaria della superpotenza americana.
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La Repubblica, 31 agosto 2017
Lettera al Direttore
CARO direttore, mi permetto di dissentire dalle critiche alla sinistra italiana avanzate martedì dal professor Marzio Barbagli a proposito di immigrazione e criminalità. La sinistra nostrana ha tanti difetti, ma su questo tema si muove bene, in sintonia con le posizioni della Chiesa, del governo e della maggioranza degli italiani. Non mi risulta che il Pd e i suoi dintorni stiano ignorando o coprendo una realtà scomoda da accettare, come quella di una forte incidenza degli immigrati nella perpetrazione di reati violenti.
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