Il Fatto Quotidiano, 17 Dicembre 2019
Le Nazioni Unite avrebbero riattivato una grande fabbrica di cotone ferma da qualche anno per mancanza di elettricità e i talebani avrebbero proibito la coltivazione del papavero
La guerra in Afghanistan è stata un fallimento a tutto campo: militare, politico, umanitario e finanziario. Ma si ostina a non terminare nell’unico modo in cui può cessare: un accordo di pace che apra la strada alla ricostruzione del Paese più tormentato della terra. È in corso a Doha una trattativa tra il governo americano e i Talebani che dovrebbe portare al ritiro delle truppe di occupazione in cambio della rinuncia al sostegno del terrorismo nel quadro di un governo di unità nazionale che indichi elezioni democratiche e stabilizzi il Paese. Tutto qui. Nessun accenno ad altre questioni, tra cui la produzione dell’ oppio.
È la quinta o la sesta volta in diciannove anni che ci si siede a un tavolo di negoziato sull’Afghanistan. Le trattative precedenti sono fallite a causa dell’incapacità americana di accettare la sconfitta e di lasciare liberi gli afghani di decidere il proprio destino. Ma a ogni tornata, la forza negoziale dei Talebani è cresciuta e ora siamo al punto che agli Stati Uniti non resta che la richiesta di salvare la faccia, andandosene dal Paese senza una contropartita significativa, perché i Talebani poco o nulla hanno a che fare con il terrorismo internazionale.
Ben diverse erano le condizioni poste dalle Nazioni Unite per una rinuncia dei Talebani alle violazioni dei diritti umani e un loro rientro nella legalità internazionale già nel 1997, data della mia prima missione in Afghanistan come Vicesegretario Generale e Direttore del Programma antidroga dell’Onu. Gli studenti del Corano erano un movimento di ultra-moralizzatori islamici, nato dalle viscere profonde di un paese semidistrutto da decenni di violenza e di caos. Controllavano l’ 80% del territorio e tassavano le coltivazioni di oppio facendo finta che l’Islam le consentisse. Sotto di loro, l’Afghanistan era balzato al primo posto nella lista dei fornitori mondiali, alimentando quasi l’intero mercato europeo dell’eroina. Perché non provare a chiudere il rubinetto all’origine, dove con poche decine di milioni di euro da destinare alla riconversione delle miserabili economie locali si poteva disseccare il fiume dei 20 miliardi di fatturato criminale generato dal mezzo milione di consumatori europei? Kofi Annan mi autorizzò, prefigurando una trattativa sulla droga e sui diritti delle donne che sarebbe sfociata nel percorso verso un governo semi-decente, da far riconoscere alla comunità internazionale.
Lo zar antidroga di Clinton, un generale digiuno di politica, appoggiò l’iniziativa senza riserve, dato il momentaneo vuoto delle politiche americane nella regione. Solo il governo britannico si oppose, in nome di un patetico “diritto di zona di influenza” sull’Afghanistan – un paese dove gli inglesi, come feci notare all’ambasciatore di sua Maestà la Regina, avevano perso tre guerre. Feci confezionare una proposta di eliminazione totale delle coltivazioni illecite in 10 anni tramite sviluppo alternativo: il prezzo dell’oppio pagato allora ai coltivatori afghani era così irrisorio che l’importo totale era di soli 250 milioni di dollari. E non fu difficile perciò ottenere impegni di sostegno finanziario dai donatori del Programma.
Arrivai a Kandahar, la capitale talebana, nel novembre 1997 preceduto dalla BBC di lingua pashtun che aveva anticipato la mia proposta. Mi trovai di fronte il primo ministro talebano, Rabbani, che mi disse subito di accettare i contenuti del negoziato ma di dissentire sulla tempistica: perché volevo aspettare 10 anni quando – a fronte di un pagamento di 250 milioni di dollari – loro erano in grado di azzerare subito, nell’arco di un solo anno, l’intera produzione del papavero? Superato il brivido iniziale, gli spiegai che non viaggiavo con i forzieri di Alì Babà al mio seguito, e che la pessima reputazione internazionale che si erano creati con il loro modo di trattare le donne mi avrebbe precluso qualsiasi finanziamento. Se volevano l’ aiuto estero, dovevano dimostrare di cambiare. Arrivammo a un compromesso secondo il quale si sarebbe fatto un esperimento di cooperazione nella zona di Kandahar: l’Onu avrebbe riattivato una grande fabbrica di cotone ferma da qualche anno per mancanza di energia elettrica, e il governo locale avrebbe proibito la coltivazione del papavero in tutto il distretto offrendo ai contadini soluzioni alternative, tra cui l’ impiego nella fabbrica stessa. Dove avrebbero lavorato tutte le donne che era necessario impiegare. Nel frattempo, il governo centrale avrebbe cominciato a dismettere le vessazioni più odiose contro le donne e fatto rispettare la proibizione di coltivare il papavero, appena definito come pianta “intossicante” dai teologi islamici da noi consultati (e finanziati).
L’accordo locale non funzionò perché un investitore straniero residente sul posto fiutò l’affare della fabbrica e l’acquistò escludendoci dalla scena. Lasciammo perdere la cosa, non perché l’investitore si chiamasse Bin Laden, ma perché si erano aperte altre prospettive di negoziato, su cui il governo di Kabul mostrava una certa flessibilità. Ma i tempi cambiarono nel 1999-2000. Gli Stati Uniti decisero di porre fine al loro flirt con gli eredi dei mujaheddin, e con il consenso dei russi promossero due tornate di sanzioni anti-talebani del Consiglio di Sicurezza. Noi del segretariato Onu non ci opponemmo perché volevamo aumentare la pressione sui Talebani ed eravamo irritati con loro perché avevano scoperto la geopolitica ed avevano iniziato qualche giochetto con i Paesi confinanti per sottrarsi alle nostre determinazioni. La svolta arrivò nel’ estate del 2001. Messi all’angolo dall’Onu e anche dai Paesi amici, i Talebani decisero, su nostra spinta, di far valere il divieto di coltivazione del papavero in ogni angolo dell’Afghanistan sotto il loro controllo. Nella sorpresa generale, l’interdizione funzionò: la superficie coltivata a papavero passò da 74mila ettari nel 2000 a zero nel 2001: era così dimostrato che è possibile azzerare la produzione di droga. Nel mese di agosto fui contattato dal nuovo capo talebano: avevano bisogno urgente di almeno 50 milioni di dollari per consolidare lo storico risultato.
Gli feci presente che era troppo tardi. Stavo per lasciare l’Onu perché con l’arrivo di Bush e Berlusconi in quell’anno avevo perso il sostegno politico necessario per ottenere un secondo mandato. E loro erano ormai nel mirino dell’America incattivita dei neocon. Due mesi dopo, infatti, la vendetta post 11 Settembre, invece di colpire la matrice saudita degli attentati, si rovesciò proprio su di loro, i Talebani, l’anello debole del radicalismo islamico. Come poi abbiano fatto i Talebani a risorgere più forti di prima nei decenni successivi, è cosa che solo le politiche americane in Afghanistan possono spiegare.