Arlacchi: «A Miami i soldi della corruzione venezuelana"

Il Periodista, 1 Aprile 2020

di Ruggero Tantulli. Il Periodista ha chiesto a Pino Arlacchi, ex vicesegretario dell'Onu e architetto della strategia antimafia italiana, il punto sulla situazione in Venezuela. Dal «più grande caso di corruzione della storia», scoperchiato dal governo bolivariano, alla "maledizione del petrolio", fino alle accuse di narcotraffico rivolte dagli Usa a Nicolás Maduro, prive di qualsiasi riscontro. Al contrario, quello che emerge è un fiume di denaro che corrompe i funzionari pubblici e finisce dritto nelle banche della Florida. A questo si aggiungono le sanzioni statunitensi e cinque miliardi di risorse venezuelane sequestrate senza alcuna base legale dalle banche internazionali. Oltre al bolívar, la valuta locale, completamente deprezzata dalle speculazioni delle agenzie di rating. «È un tentato genocidio»

«Maduro narcoterrorista? Spazzatura politica priva di alcun fondamento. I veri problemi del Venezuela sono le aggressioni Usa e la corruzione, che il governo sta combattendo seriamente. E sa dove finiscono i profitti della corruzione? Nelle banche di Miami».Lo dice il massimo esperto di antidroga del mondo, Pino Arlacchi, intervistato da ilPeriodista.Le accuse del procuratore generale statunitense William Barr, secondo cui il presidente del Venezuela e alcuni suoi funzionari di più alto livello sarebbero a capo di un cartello della droga, in concorso con due ex capi delle Farc (Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia), che avrebbe «inondato gli Usa di cocaina dal 1999 a oggi», non hanno destato alcuna reazione negli ambienti internazionali.«Sono falsità clamorose - commenta Arlacchi -, in oltre 40 anni ai vertici dell’antidroga mondiale non mi è mai capitato di dovermi occupare di Venezuela: non si trova un solo rigo nei documenti Onu e nemmeno della Dea statunitense».
Calabrese di Gioia Tauro, 69 anni, dal 1997 al 2002 Arlacchi è stato vicesegretario generale dell’Onu - il segretario generale era Kofi Annan - e direttore esecutivo dell’Undcp, l’Ufficio per il controllo delle droghe e per la prevenzione del crimine delle Nazioni Unite.Professore ordinario di Sociologia, già deputato, senatore e parlamentare europeo, Pino Arlacchi è stato l'architetto della strategia antimafia italiana degli anni '80 e ’90.Grande amico di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, Arlacchi è stato presidente onorario della Fondazione Falcone e ha redatto il progetto esecutivo della Dia (Direzione investigativa antimafia). Quando Totò Riina fece i nomi dei suoi tre principali nemici, uno era lui, «quell'Arlacchi che scrive libri» .Tra i risultati delle sue attività a livello internazionale, l'approvazione della Convenzione di Palermo contro la criminalità transnazionale e la drastica riduzione delle colture di coca e di oppio da eroina, come nell’Afghanistan pre-11 settembre 2001: un lavoro vanificato dall’invasione statunitense, che ha permesso ai signori della guerra di riprendere a controllarne la produzione e l’esportazione. Da qualche mese, Arlacchi è consigliere del governo Maduro per riformare il sistema giudiziario venezuelano. Un servizio che il sociologo ha già svolto in passato in diversi Paesi, come il Brasile di Luiz Inácio Lula, la Romania e il Messico, sia per quanto riguarda l’attività anticrimine sia per l’antiriciclaggio. «Sempre a titolo gratuito - ci tiene a precisare -. Non ho altri scopi se non quello di aiutare a combattere la grande criminalità i governi che ne hanno bisogno. Ma mi faccia dire una cosa che non ho ancora detto e trovo importante».

Prego.«In Venezuela il principale problema non è la criminalità organizzata ma la corruzione. Il tasso di corruzione è sempre stato molto alto, più dell’Italia pre-Mani pulite. È facile, visto l’andazzo, dare la colpa al governo Maduro, ma non è così».

Perché?«Innanzitutto il sistema venezuelano è federale e decentrato: molti Stati e molte autorità locali sono governati dalla cosiddetta opposizione, quindi la corruzione si spalma su tutto il sistema politico e non solo su quello filogovernativo. La mia proposta iniziale, quando ho accettato l’incarico di consigliere, era di occuparmi di riformare il sistema giudiziario dal lato anti criminalità organizzata. Il presidente Nicolás Maduro, invece, mi ha chiesto di correggere il focus del mio lavoro e concentrarmi sulla lotta alla corruzione. I grandi gruppi della corruzione in Venezuela, infatti, sono strettamente collegati alla politica, in gran parte di opposizione, che è legata agli Usa. I profitti della grande e media corruzione in Venezuela, che prima di Hugo Chávez era una corruzione universale, finivano e finiscono tutti nelle banche di Miami».

Quindi i profitti della corruzione venezuelana finiscono negli Stati Uniti?«Esatto. Il tema fondamentale è il collegamento con i riciclatori americani, con un pezzo del sistema finanziario americano. Maduro ha tentato di combattere la corruzione di più alto livello come non mai e anche per questo viene messo sotto accusa».

Cos’ha fatto il governo per combattere la corruzione?«In due ondate successive ha colpito tutta la dirigenza di PDVSA, la società petrolifera di Stato, che era il principale centro della corruzione in Venezuela. Tutti i vertici sono stati scoperti, sostituiti e incriminati. Si tratta di personaggi, ahimè, nominati dieci anni prima da Chávez, che inizialmente ha un po’ sottovalutato la corruzione, perché il problema non appariva così evidente. Per oltre dieci anni, fino a tre anni fa, questi ladri hanno depredato l’azienda petrolifera e lo Stato, prendendo una tangente di oltre il 10% su tutte le vendite del petrolio. Questo è stato il più grande caso di corruzione della storia, con profitti per oltre 50 miliardi di dollari, ovvero la metà del PIL attuale del Venezuela».

Sono stati arrestati?«Molti di questi dirigenti sono fuggiti all’estero: un po’ negli Usa, un po’ in Europa. E ovviamente sono diventati un focolaio di opposizione politica antigovernativa molto potente, che corrompe giornali, politici e giornalisti. I tentativi del procuratore anticrimine del Venezuela di farli arrestare ed estradare sono finiti nel vuoto perché molti si sono trasformati in “pentiti” oppositori: l’Interpol considera le accuse contro di loro come politicamente motivate, invece che dar seguito alle richieste di cooperazione internazionale. Il governo Maduro, inoltre, ha smantellato un altro grande centro di corruzione legato all’ex fiscal general (procuratrice generale, ndr) Luisa Ortega, che faceva il bello e il cattivo tempo a livello nazionale, gestendo corruzione e racket estorsivo ad altissimo livello. Incriminata, Ortega è scappata con il bottino in Colombia, da dove spara a zero sul governo, dichiarandosi esule politica».

Venendo alle accuse di narcoterrorismo per Maduro e i suoi, lei ha parlato di «spazzatura politica». Perché?«E lo confermo: sono accuse assurde. Mi occupo di droga da più di 40 anni, ho scritto un po' di libri sul tema e sono stato ai vertici dell’antidroga mondiale. Non mi è mai capitato di dovermi occupare di Venezuela e non l’ho mai visitato quando ero all’Onu perché non ce n’era bisogno. Sono falsità clamorose: non c’è un solo rigo sul traffico di droga dal Venezuela agli Usa nei documenti americani e dell’Onu. Sono andato a rileggere tutti gli ultimi rapporti della Dea (Drug Enforcement Administration, ndr). L'ultimo è di tre mesi fa. La produzione e le rotte sono quelle classiche».

Quali?«La produzione mondiale di cocaina è, grosso modo, così ripartita: in Colombia il 70%, in Perù il 20% e in Bolivia il restante 10%. La mediazione per arrivare negli Stati Uniti, che sono il principale mercato di consumo del mondo, avviene attraverso i narcos messicani, ma questo lo sanno anche i bambini. Dal lato del Pacifico ma anche dei Caraibi. Una rotta più marginale, poi, passa per Ecuador e Guatemala, quindi per l’America centrale. Ma questi sono tutti dati conosciutissimi, infatti nessuno sta prendendo sul serio queste accuse, nemmeno chi è contro Maduro».

È, quindi, l’ennesimo tentativo di ingerenza o di colpo di stato? «Certo, è una guerra non convenzionale. Gli americani non possono più fare colpi di stato “alla vecchia maniera” con la Cia e i marines, anche perché Maduro ha un ottimo sistema di intelligence e protezione personale. Tentativi, comunque, ne sono stati fatti e ne vengono fatti, ma senza successo. Gli Usa non riescono a sottomettere il Venezuela anche perché con Guaidó hanno scelto una strategia totalmente sbagliata. Juan Guaidó è adesso totalmente isolato. Il blocco economico e finanziario non sta portando alla ribellione contro il governo. Scartata l’invasione militare, quindi, non resta che il character assassination, l’assassinio morale. Ma queste accuse sono un colpo a vuoto per qualunque osservatore obiettivo, un colpo che finirà per rafforzare l'idea che il Venezuela sia vittima di una aggressione da parte degli Stati Uniti».

Per quanto le forze armate venezuelane siano fedeli a Maduro, l’invasione militare non è un’opzione possibile? «L’invasione non è attuabile, perché gli esperti di sicurezza al Pentagono sanno che la forza di Maduro risiede in un esteso consenso popolare, che coinvolge le forze armate. Queste sono un esercito popolare, e non un’entità distinta e contrapposta ai cittadini. A differenza della Bolivia, dove Evo Morales è caduto perché non ha riformato esercito e polizia. L’invasione del Venezuela, hanno ipotizzato i pianificatori militari, inizierebbe come l’Iraq e finirebbe come il Vietnam».

Il procuratore generale Barr, però, ha esplicitamente accostato Maduro a Manuel Noriega, rievocando l’invasione di Panama del 1989.«Con la differenza che Noriega era un loro uomo senza alcun sostegno dal basso. Era un fantoccio di cui si sono sbarazzati quando ha iniziato a disobbedire ai loro ordini. Panama a quei tempi era la classica repubblica delle banane. Il caso del Venezuela è completamente differente. L’operazione militare sarebbe destinata al fallimento, anche perché nel Paese ci sono sette milioni di chavisti, molti dei quali pronti a prendere le armi per difendere il loro Paese, e un esercito molto attrezzato e motivato politicamente. E ciò è perfettamente noto al Pentagono, che sconsiglia qualunque invasione».

La situazione economica del Venezuela, comunque, è di grande difficoltà. A cosa è dovuta?«Per l’80% è dovuta alle sanzioni statunitensi, poi all’ennesimo crollo del prezzo del petrolio. Il modello-Chávez poggiava anche sull'alto prezzo del petrolio».

Ma com’è possibile che, pur avendo molte altre materie prime, il Venezuela dipenda ancora così tanto dal petrolio?«Questo è il più grande limite di Chavez, continuato con Maduro: non essersi liberati della “maledizione del petrolio” e non aver costruito un’economia indipendente dagli idrocarburi. Il Venezuela è un Paese pieno di risorse. Potrebbe essere ricco senza petrolio: ha le seconde riserve mondiali di oro, e poi coltan, ferro etc. Ma a parte le risorse naturali, che hanno sempre il problema di dipendere dalla fluttuazione dei mercati mondiali, il Venezuela avrebbe tutto: c’è talmente tanta acqua, per esempio, che l'energia elettrica per uso interno viene generata da centrali idriche non alimentate a petrolio. Poi ci sono l’agricoltura, il turismo, le industrie manifatturiere… Il grande piano di conquista dell'indipendenza economica non è stato ancora fatto, ed è quello che sto cercando di suggerire al Paese. Un piano di sovranità economica per uscire in dieci anni dalla “maledizione del petrolio”».

Quali sono le conseguenze concrete delle sanzioni statunitensi?«Le sanzioni riducono al minimo l’accesso del Venezuela ai mercati internazionali. Grazie a India, Cina e Russia il Paese riesce a sopravvivere, ma gli introiti della vendita del petrolio sono passati da 50 miliardi di dollari di dieci anni fa ai cinque di adesso. Le conseguenze, quindi, sono il crollo del PIL e un’emigrazione notevole, per un Paese caratterizzato da alti tassi di immigrazione».

Quanti sono gli emigrati venezuelani negli ultimi anni?«Circa tre milioni negli ultimi cinque anni. C’è anche da dire, però, che le rimesse degli emigrati riequilibrano la perdita. In ogni caso sono un diretto prodotto della guerra economica contro il Venezuela. Nonostante tutto, il 70% del bilancio dello Stato è spesa sociale e ciò si traduce in sostegno diretto ai poveri, come il programma CLAPS di distribuzione regolare di generi alimentari destinati alla maggioranza delle famiglie venezuelane».

Lo Stato sociale chavista resiste?«È come una macchina con poco carburante. Molto avanzato, ma con risorse limitate. Prima di Chávez non esisteva lo Stato sociale. Non esistevano le pensioni! I soldi derivanti dal petrolio finivano tutti nelle banche americane. Il Venezuela pre-Chávez era governato da un'odiosa oligarchia: lo Stato era ridotto al minimo, garantiva solo alcuni servizi essenziali. Chávez ha fatto diminuire grandemente la povertà, azzerato l’analfabetismo e nazionalizzato le industrie petrolifere, quelle che Trump e soci vorrebbero riconsegnare ai vecchi proprietari e alle compagnie americane».

Cosa succederebbe se gli Usa tornassero padroni del Venezuela?«Tornerebbe a spadroneggiare l’élite compradora"che campa all’ombra dello Zio Sam. Lo Stato sociale creato dal chavismo verrebbe distrutto. Le condizioni di vita della popolazione del Paese verrebbero devastate. E la gente è consapevole di ciò. Infatti, le sanzioni non spingono a ribellarsi contro il governo, ma lo rafforzano. Gli americani non vogliono elezioni in Venezuela perché sanno che il risultato sarebbe favorevole al governo attuale, come nelle 24 volte precedenti. Vogliono che Maduro se ne vada senza elezioni, così possono impiantare un regime fantoccio. Ma questo piano è destinato al fallimento anche perché, per fortuna, il mondo ormai è multipolare».

Lei ha parlato di una «rapina da cinque miliardi di dollari delle risorse finanziarie del Venezuela depositate nelle banche di 15 Paesi». Di cosa si tratta?«Le principali banche internazionali hanno obbedito come un sol uomo all’ordine del Tesoro americano di congelare i soldi depositati presso di loro dal Venezuela. Il sequestro è illegale perché in nessuno di questi Paesi è avvenuto su ordine della magistratura. Se mettiamo insieme le sanzioni economiche, il blocco finanziario e la distruzione della moneta nazionale, il bolívar, tramite l'iperinflazione indotta, beh, siamo vicini a ciò che nel diritto internazionale si chiama tentato genocidio».

La crisi in corso riguarda anche la moneta, appunto. Un commento sulla dollarizzazione?«Questo è un danno forse altrettanto grave delle sanzioni. Hanno distrutto il bolívar e quindi la sovranità monetaria del Venezuela, dove ora è il dollaro che impera. Un’azione criminale intrapresa con la complicità delle società di rating americane da un gruppo di speculatori che pubblicano regolarmente le quotazioni del mercato nero della valuta a sfavore del bolívar e a favore del dollaro. La fiducia nella valuta nazionale è crollata, e il Paese ha pagato un prezzo altissimo per questo».

È vero che il Fondo monetario internazionale ha negato un finanziamento al governo Maduro«È vero che Maduro si è rivolto al Fmi chiedendo un finanziamento di emergenza, ma la risposta ancora non è certa. Solo gli Usa si oppongono frontalmente, l’Ue è favorevole. Staremo a vedere».

https://www.ilperiodista.it/post/arlacchi-a-miami-i-soldi-della-corruzione-venezuelana-anti-maduro

 
 

Cina e Stati Uniti: la grande sfida alla pandemia mondiale

Il Fatto Quotidiano, 30 Marzo 2020

Pechino ha preso il problema per le corna, scegliendo la guerra al Covid. Una decisione vincente: in poche settimane sono riusciti a governare la crisi. Anche Trump ha fatto retromarcia (per il voto alle porte), stanziando tanti soldi

L’allarme sul Coronavirus non è stato creato da alcun complotto. È iniziato come effetto di uno scontro “in automatico” tra sistemi politici e informativi divergenti che non hanno bisogno di alcuna intenzionalità per tentare di sfruttare a proprio vantaggio ogni vulnerabilità dell’ avversario. Le cose potrebbero essere andate così:

a) La nascita di un focolaio epidemico in una megalopoli cinese ha fornito l’occasione per assestare un bel colpo al prestigio e alla credibilità del regime di Xi Jinping. Tra la fine di gennaio e l’inizio di febbraio il governo di Pechino è stato messo sotto processo, accusato di non essere in grado di proteggere la salute dei cinesi – e di riflesso quella del resto del mondo – di fronte ad una epidemia che avrebbe presto assunto proporzioni bibliche.

b) Xi Jinping e l’elite comunista avevano a questo punto due scelte. La prima era quella di dichiarare che era tutta una montatura anticinese, e che si trattava di un’ influenza stagionale la cui letalità si sarebbe dimostrata irrisoria rispetto ai numeri della popolazione. La forza del sistema si sarebbe allora dispiegata nel nascondere i dati, sopprimere singole voci di allarme, silenziare autorità locali e media. Ed è innegabile che questa inclinazione sia stata molto forte ed abbia dominato il primo stadio della pandemia, quando chi lanciava gli allarmi, come il famoso medico di Wuhan, veniva perseguitato e zittito.

Pur non essendo più il paese totalitario della rivoluzione culturale e degli eccessi maoisti, la Cina di oggi è un paese solidamente autoritario, perfettamente in grado di attuare una linea di negazione della pandemia. Bastava perciò non fare nulla di concreto contro di essa, mettersi alla cappa ed aspettare l’arrivo dell’estate con l’inevitabile, connesso calo di contagiati e morti. Con una popolazione di un miliardo e 400 milioni, si sarebbe trovato il modo di giustificare anche decine di migliaia di decessi.

c) In una fase susseguente, tuttavia – e in seguito a un travaglio interno al partito comunista sul quale è trapelato ben poco – è prevalsa però la scelta opposta. La nuova potenza mondiale aveva deciso di essere abbastanza forte da prendere il toro per le corna.

Contrordine, compagni. La linea adesso era diventata quella di aderire alla narrativa sul Coronavirus appena creata in Occidente, e di imbarcarsi in una sfida a tutto campo. Se la posta in gioco era la capacità di governo della Cina post-Deng Xiaoping, la partita, whatever it would take, si sarebbe giocata. I rischi erano estremi. E il costo della vittoria successiva, conseguita in sole quattro settimane, si è rivelato molto grande in termini economici. Ma è questo successo che consente oggi alla Cina di presentarsi al mondo come una potenza non minacciosa, rispettosa del multilateralismo e degli standard minimi della solidarietà internazionale.

d) La palla è ora rimbalzata nel campo dal quale era provenuta, con l’Oms che definisce gli Stati Uniti come il potenziale epicentro della pandemia globale, e con Trump alle prese con lo stesso identico dilemma affrontato da Xi Jinping solo qualche mese prima: accettare la sfida o svicolare da essa disconoscendone entità e significato? Anche la posta in gioco è simile, viste le elezioni presidenziali alle porte e i dubbi ormai dilaganti sulla capacità degli Usa di guidare l’Occidente. Un’entrata in guerra della potenza americana alla testa di una grande coalizione, con strategie e risorse all’altezza del nemico da combattere, viene in effetti evocata dai nostalgici dei bei vecchi tempi.

e) Ma Trump non appare affatto interessato a percorrere questa strada. Dopo un iniziale tentennamento, sembra avere abbracciato la scelta di ripiego, minimizzando la gravità della tragedia: è in atto la solita influenza, che forse non arriverà neppure ad uccidere i 27-70mila americani di ogni anno. Per lui ci sono altre priorità. Calcolo solo elettorale, e virtualmente disastroso? Oppure fredda valutazione delle reali chances di successo immediato in un conflitto in cui, una volta scesi in campo, le due armi più potenti dell’impero – il dollaro e le forze armate – servirebbero a ben poco? Un confronto dove l’arretratezza americana – in termini di assenza di servizi sanitari universali, estremo individualismo e debole senso della collettività – costituirebbe un handicap devastante?

f) La posizione di Trump ha una logica da non sottovalutare, rafforzata dallo storico piano di sostegno dell’economia appena varato che contiene misure che trasferiscono risorse direttamente ai cittadini: un bonus pre-elettorale di 13mila dollari totali a ciascuna famiglia americana di quattro persone. Misure ovviamente molto popolari, rivolte a tutti i votanti, e suscettibili di compensare, nei disegni della Casa Bianca, le ansie generate dalla veloce crescita dei contagi.

Ma l’esito finale della partita Usa contro il virus resta comunque molto incerto. Perché in scena non ci sono solo i cinici calcoli del Presidente. Ci sono anche la progressione di un’epidemia non contrastata, l’industria mediatica ed i governatori degli stati che considerano l’emergenza sanitaria come una priorità assoluta. Una loro retromarcia è molto improbabile.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/03/30/cina-e-stati-uniti-la-grande-sfida-alla-pandemia-mondiale/5753575/

 

''Milioni di nuovi poveri, sarà rivolta" Arlacchi, "da BCE soldi in tasca a cittadini"

AbruzzoWeb, 28 Marzo 2020

POST-CORONAVIRUS, INTERVISTA A SOCIOLOGO DI FAMA MONDIALE, ''CRISI COME NEGLI ANNI '30, ORA SI CREINO DAL NULLA 1.500 MILIARDI PER ASSEGNI MENSILI DA 500 A 1.000 EURO PER UN ANNO. FINORA BRUXELLES DISDICEVOLE E MIOPE''

di Filippo Tronca L'AQUILA - O l’Unione europea, che fino ad ora ha avuto un atteggiamento “disdicevole”, metterà soldi, tanti, in tasca ai cittadini," facendoli stampare dalla Banca centrale", oppure il Vecchio Continente rischia davvero la sommossa sociale e di precipitare in una guerra civile. Perché tra pochi mesi saranno milioni e milioni i cittadini che non avranno nemmeno i soldi per mangiare, visto che il post-Coronavirus determinerà un crollo del pil di almeno 5 punti, in pratica una crisi generale che può essere paragonata solo a quella vissuta negli anni '30 del secolo scorso. Non è una distopia millenarista, ma l’autorevole parere del sociologo Pino Arlacchi, settant'anni, ex europarlamentare Pds ed ex-senatore dell’Ulivo, tra gli ideatori della strategia antimafia italiana negli anni novanta, considerato una delle massime autorità mondiali in tema di sicurezza umana. E che con il best seller uscito a novembre, I padroni della finanza mondiale, ha messo a nudo con uno studio poderoso la non sostenibilità sociale ed economica del capitalismo finanziario, ma anche di questa Unione europea che rappresenta un progetto drammaticamente incompiuto. Arlacchi, lasciata la politica, è ora professore ordinario di Sociologia generale presso la facoltà di Scienze politiche dell'Università di Sassari, professore associato di Sociologia applicata presso l'Università della Calabria e dell'Università di Firenze e visiting professor alla Columbia University di New York. Interivstato da Abruzzoweb, Arlacchi lancia innanzitutto l’allarme per la tenuta sociale del Vecchio Continente, ma propone anche una soluzione, l’unica possibile a suo modo di vedere, che va nella direzione opposta delle politiche economiche neoliberiste e che rappresenta un ritorno al keynesismo nella sua accezione più radicale: quella dell'helicopter money, "soldi dall'elicottero", ovvero una politica economica per cui una banca centrale crea del denaro e lo distribuisce direttamente ai cittadini. E mentre Arlacchi parla e il cronista prende appunti, già montano il malessere e la disperazione di persone che hanno finito i soldi, che danno di matto in mezzo alla strada, che vanno nei negozi, prendono dagli scaffali l'essenziale per mangiare spiegando poi di non poter pagare, mentre carabinieri e guardia di finanza cominciano a stazionare, come nel caso di Palermo, davanti ai negozi che rischiano di essere a breve presi d'assalto. “È urgente comprendere che la vera emergenza sarà economica, finita quella sanitaria, che in fin dei conti durerà pochi mesi - spiega il sociologo - I dipendenti statali come me, che sono docente universitario, non subiranno grosse conseguenze, almeno per il breve e medio periodo, ma per milioni e milioni di lavoratori del settore privato, professionisti, partite iva, commercianti e piccoli imprenditori di un'ampia gamma di settori, il futuro immediato è nerissimo. L’autonomia finanziaria durerà poche settimane. Poi la maggior parte si ritroverà senza soldi neppure per mangiare”. “Lo scenario sarà esplosivo, potrà accadere di tutto - prosegue Arlacchi -. Ed è ridicolo pensare che la soluzione, ad esempio per le piccolissime imprese, che sono il tessuto produttivo del nostro Paese, sia quello di agevolare il credito, prestare quanti più soldi possibile. Avrà un effetto pari allo zero”. E allora, ragiona il sociologo, se non vogliamo giocarci il futuro, la democrazia, un minimo di pace sociale, se non vogliamo l'anarchia e la guerra civile, non c’è che una soluzione. “La Banca centrale europea - entra nel merito Arlacchi - è l'unico strumento che ha la potenza di fuoco sufficiente per intervenire a risolvere la crisi che attanaglia il Continente. Questo perché è l'unica istituzione che può creare denaro dal nulla. Lo ha già fatto con il quantitative easing: miliardi creati dal nulla e trasferiti alle banche, frenando così la crisi finanziaria di dieci anni fa e impedendo a decine di banche di fallire, ma senza avere alcun impatto sul ciclo economico dell’eurozona, rimasto in stagnazione. Adesso la Banca centrale europea potrebbe allo stesso modo ‘stampare’ non meno di 1.500 miliardi di euro l’anno, ma questa volta per metterli direttamente nelle tasche di tutti i cittadini dell'eurozona iscritti nelle liste elettorali. Tra i 500 e i 1.000 euro al mese, per almeno un anno, sotto ovviamente una certa soglia di reddito e senza indebitare né i cittadini, né gli Stati. Non a parere mio, ma di tanti economisti, è l’unico modo per far fronte ad un crollo del pil che non sarà inferiore ai 5 punti percentuale". Una misura shock che però è fantascienza nella Bruxelles degli eurocrati neoliberisti e delle vestali del rigore di bilancio, che ancora propongono il Meccanismo europeo di stabilità, ovvero "soldi prestati a strozzo", per poi commissariare e stritolare gli Stati e fargli fare la misera fine della Grecia, ma non ad esempio negli Stati Uniti. “Donald Trump, lontanissimo politicamente da me, esattamente questo ha deciso di fare, seppure in scala ridotta - spiega Arlacchi -: trasferire a ciascun cittadino americano 1.500 dollari al mese più 500 dollari agli adulti e 500 dollari ai ragazzi. Un bonus da 10 mila dollari l’anno a famiglia che sarà il carburante della ripresa della domanda interna e la condizione della pace sociale. Ed anche, purtroppo, della sua sicura rielezione”. Il problema, però, per Arlacchi, è che il “comportamento delle istituzioni europee davanti a questa crisi, da tutti i punti di vista fino a questo momento è stato disdicevole, per usare un termine moderato. Non hanno fatto assolutamente nulla di serio, se si esclude il piano di acquisto di bond da parte della Banca centrale. Ritengo sia desolante l'assenza di un piano coordinato europeo, di una autorità che decida una strategia, per poi lasciare ai singoli Stati e alle singole entità locali l'attuazione. È stata persa una grande occasione. Io credo che l'Europa economica uscirà a pezzi da questa vicenda. Forse si salverà l'Europa politica, ma attraverso una radicale riforma”. E non sarà, per Arlacchi, l’unica vittima del post-coronavirus: “Spero che questa terribile pandemia faccia capire una volta per tutte che il mercato non serve a risolvere i problemi dell'umanità. Fino a poco tempo fa bastava pronunciare la parola magica, Mercato, per guarire anche il cancro. E oggi scopriamo invece che oggi sono l'autorità pubblica e la collettività organizzata che ci stanno facendo uscire dall’emergenza sanitaria, che sta pian piano vincendo questa immane sfida. Lo Stato, non il mercato”.

https://www.abruzzoweb.it/public/tcpdf/abruzzoweb/content_pdf.php?nid=724856&cid=2

 

Coronavirus, un assegno agli europei contro la crisi

Il Fatto Quotidiano, 17 Marzo 2020

Coronavirus e recessione preesistente stanno creando una tempesta economica perfetta, ma oggi possediamo una migliore consapevolezza degli strumenti di contrasto, il maggiore dei quali è il cosiddetto Quantitative easing (QE) a disposizione delle Banche centrali. Il QE non è altro che l’immissione nel sistema finanziario di grandi quantità di denaro a costo zero o quasi: 3.500 sono i miliardi di euro già impiegati dalla Bce per la sola Eurozona. È fondamentale comprendere che il denaro del QE è tutto fiat money, denaro virtuale che una volta si stampava fisicamente e che oggi è solo una serie di segni su una scheda elettronica della Banca centrale. Il fiat money non proviene, infatti, da depositi preesistenti e non è garantito da nient’altro che dalla garanzia “politica” del sistema cui appartiene l’autorità emittente, ed è quindi uno dei pilastri essenziali della sovranità dello Stato.

Il volume di fuoco del fiat money è immenso. Il whatever it takes di Mario Draghi che ha stroncato l’attacco all’euro del 2012 conteneva un’allusione al fatto che la Bce possiede un’arma di potenza illimitata, conferitagli appunto dalla sovranità monetaria. Il QE ha dimostrato la sua forza salvando l’euro ed evitando che la crisi si trasformasse in una replica del crollo degli anni 30 che portò il capitalismo sull’orlo dell’estinzione. Ma ha mostrato anche due limiti: non ha generato quel minimo di inflazione che sarebbe stata necessaria per riavviare la crescita, e non ha determinato alcun comportamento virtuoso né da parte delle banche né da parte delle grandi imprese. Queste ultime non hanno trasformato la liquidità aggiuntiva in investimenti nell’economia reale, ma l’hanno usata per operazioni di ingegneria finanziaria e per buy-back delle proprie azioni che hanno arricchito solo i loro azionisti. È venuto allora il momento di porsi una domanda. Perché non usare questo strumento in una direzione diversa, in grado di avere un impatto anti-crisi grandemente superiore? Mi riferisco a quello che viene chiamato il people’s quantitative easing, il QE democratico, che consiste nel trasferimento diretto, dalla Bce ai cittadini, di una somma consistente, da spendere nell’acquisto di beni e servizi entro un dato periodo di tempo. Una specie di “assegno europeo”, da reiterare mensilmente per uno o due anni, ai cittadini dell’Eurozona. Un bonus, non un prestito, che non verrebbe a gravare sui bilanci degli Stati e delle famiglie e non ne aumenterebbe l’indebitamento. Non esistono ostacoli giuridici di rilievo a questa misura. Si tratta solo di trasferire direttamente ai cittadini consumatori risorse destinate finora solo alle banche, e capaci di stimolare subito l’economia. Una misura temporanea, che potrebbe creare anche quel po’ di inflazione ricercata da tempo e senza successo dalla Bce.

Quanto costa l’assegno europeo? Secondo l’economista di Oxford John Muellbauer, la Bce potrebbe trasferire 500 euro al mese a larga parte dei 275 milioni di adulti dell’eurozona tramite un assegno individuale agli iscritti alle liste elettorali. La cifra totale si aggirerebbe intorno ai 1.500 miliardi di euro all’anno: un colpo di bazooka pari all’11% del Pil dei 19 Paesi interessati. L’assegno europeo contribuirebbe a unificare l’Eurozona perché avrebbe il suo massimo impatto su Italia, Francia e altre nazioni del Sud, il cui Pil potrebbe salire di oltre 2 punti. Ma tutto finirà col dipendere dalla dinamica politica della crisi, cioè dal fattore U-e. Mi riferisco al fattore Unione europea ed euro. La tempesta in arrivo determinerà la loro sorte. Cosa faranno Bce, Commissione, Consiglio e Parlamento europei? Si limiteranno a salvare le banche o useranno le loro armi più potenti – come l’ assegno europeo che stiamo proponendo – per garantire anche il diritto alla sicurezza economica di noi tutti? Passeremo dall’Europa delle banche a quella dei cittadini?

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/03/17/un-assegno-agli-europei-contro-la-crisi/5739063/

 

Borse in frenata: non è epidemia, è speculazione

Il Fatto Quotidiano, 3 Marzo 2020

Nel giro degli ultimi dieci giorni le Borse mondiali, dopo essere cresciute del 24 per cento nel 2019, hanno messo a segno la più drastica contrazione degli ultimi 12 anni. È una bella botta, ma ha preso di sorpresa solo gli sprovveduti. I bruschi cambiamenti di umore dei mercati finanziari sono la quintessenza del capitalismo, e sono lo strumento con il quale lo smartmoney, la grande speculazione, spiazza i creduloni – “tosa il parco buoi” come si dice nel gergo borsistico milanese – e inizia a guadagnare scommettendo sul ribasso dei titoli dopo avere lucrato nella direzione opposta.

È un gioco pericoloso, perché l’oligarchia finanziaria globale non controlla in pieno i mercati, e se il crollo momentaneo sfugge loro di mano e si trasforma in una crisi generale, la prima vittima della valanga sono proprio i lupi di Wall Street e i loro compari in Europa e in Asia. Ma il gioco va avanti lo stesso perché è connaturato ai suoi attori principali. L’irrequietezza, la temerarietà e l’avidità incontrollata sono la cifra della finanza capitalistica fin dalle sue origini nelle città-Stato italiane del 1400.

Il pretesto per dare inizio alle danze viene fornito questa volta, con un tempismo sconcertante, proprio dal coronavirus. E proprio nel momento in cui l’epidemia viene sconfitta nel suo punto di massima concentrazione dall’azione risoluta del governo cinese. Nei prossimi mesi, perciò, le dinamiche da tenere sotto osservazione dovranno essere quelle dei mercati finanziari prima di quelle dell’epidemia. Questa non è il “cigno nero” economico evocato da esperti e giornalisti in cerca di facili effetti, cioè un evento negativo imprevedibile che scatena una catastrofe, ma la scusa per effettuare quella drastica correzione di ciclo prevista a destra e a manca da almeno un anno. Ci sono economisti come Rubin che si sono specializzati nel lanciare allarmi sull’imminente apocalisse dell’economia. E l’Economist avverte che la contrazione in corso non è altro che il riflesso della lunga “compiacenza” delle piazze finanziarie verso se stesse.

Il vero interrogativo, quindi, non è se il coronavirus si trasformerà in una specie di peste nera che infetterà milioni di persone mettendo in ginocchio gli scambi mondiali. I padroni del vapore sanno, come sappiamo noi, che ciò non accadrà.

La vera domanda è se essi – epidemia o no – saranno in grado di arrestare il gioco al ribasso prima che questo si trasformi in una replica della grande crisi del 2008-10. Crisi che è partita dalla finanza americana e si è estesa all’economia reale di mezzo pianeta fino a che la Cina non l’ha fermata con potenti misure controcicliche e con la sua indipendenza da Wall Street.

Siccome dopo il 2010 non si è fatto nulla per riformare l’architettura finanziaria globale limitando l’arbitrio dell’élite predatoria che la domina, l’economia mondiale è rimasta molto vulnerabile. E nel caso si debba fronteggiare lo scenario peggiore, su questo piano è ormai tardi per agire. L’instabilità congenita dei mercati capitalistici non conosce mezze misure e assisteremo impotenti a un’altra devastazione.

Allo stato attuale delle cose, governi, Banche centrali e imprese non finanziarie devono solo sperare che lo slump appena iniziato rappresenti solo una inevitabile correzione degli eccessi accumulati lungo un decennio di espansione delle Borse. Oppure, paradossalmente, devono confidare che esso sia davvero legato solo al coronavirus e ne segua perciò la parabola declinante. Non resterebbe altrimenti che affidarsi a un nuovo salvataggio cinese.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/03/03/borse-in-frenata-non-e-epidemia-e-speculazione/5723555/

 

Perché Sanders può vincere

Il Fatto Quotidiano, 20 Febbraio 2020

Le previsioni, recita una vecchia freddura inglese, sono sempre difficili, specie quelle sul futuro. E quelle sulle elezioni americane sono tra le più ardue. Esperti, sondaggi, partiti, bookmakers, non ci azzeccano quasi mai. Soprattutto negli ultimi decenni, da Bush II in poi, a causa della maggiore mobilità elettorale e della crescita di un disagio che parte dal profondo della società americana. E che favorisce candidati radicali, di svolta, capaci di dare risposte al di fuori dei vecchi schemi e dei vecchi partiti.

Il candidato che risponde più di ogni altro a queste nuove esigenze è Bernie Sanders. Ed è quello che ha le maggiori probabilità di vincere su Trump, anche lui personaggio di rottura, ma che non ha rotto, e che Sanders è in grado di mettere in difficoltà – con il suo messaggio anti-establishment e “socialista” – proprio presso il suo elettorato di riferimento, la classe lavoratrice bianca impoverita dallo strapotere del capitale finanziario. Sanders può vincere perché è in grado di interpretare le domande anti-imperiali e di giustizia sociale ormai diffuse in tutta la società meno che in quello 0,1% che controlla, però, quasi tutto: finanza, media, partiti, governo, Parlamento, Pentagono.

Gli Stati Uniti sono l’unico vero sistema capitalistico rimasto sul pianeta, mezzo secolo indietro rispetto all’Europa, al Canada e al Giappone. Zone dove la ricerca del profitto ha dovuto fare i conti con nemici agguerriti, che in alcuni Paesi hanno finito col sottomettere il mercato alle logiche e agli interessi della società. Il modello scandinavo, i Paesi scandinavi sono oggi molto popolari negli Usa. Sono in tanti a vederli come un esempio da seguire. Perché? Perché il loro sistema offre protezione efficace dalle avversità più elementari della vita. È in corso in America la ribellione silenziosa di una società che si sente minacciata nelle sue radici. Che sente la sua stessa “sostanza umana e materiale” messa in pericolo da un sistema che nega ai suoi membri alcuni diritti fondamentali mentre si riempie la bocca di retorica sulla cosiddetta “democrazia liberale”.

Gli Stati Uniti di oggi sono l’ombra della società aperta, prospera e fiduciosa di un tempo. Mezzo secolo di neoliberalismo capitalistico ha fatto sì che una malattia o un incidente serio, la perdita del lavoro o la caduta nel precariato da 8 dollari al giorno siano divenuti minacce che incombono su centinaia di milioni di cittadini. Il resto dell’Occidente, invece, presenta un’autorità pubblica piena di difetti, ma in grado di offrire ai propri cittadini istruzione e sanità universali e quasi gratuite, un reddito minimo di sopravvivenza, l’accesso ragionevole al servizio giustizia e rischi contenuti di incarcerazione, tossicodipendenza e degrado estremo della salute fisica e mentale.

Gli oppositori di Sanders chiamano tutto questo “socialismo” e la grande informazione, anche quella democratica, insiste sull’argomento che gli Stati Uniti non possono avere un presidente che si dichiara socialista. L’ intero establishment, Partito democratico incluso, è mobilitato contro Sanders. Come lo era, ma in misura minore, contro Trump. Ogni giorno il New York Times ricorda che Sanders è troppo estremo, che le sue riforme costano troppo e che la sua base elettorale è troppo esigua. Omettendo di informare i lettori che Bernie Sanders è il politico più popolare degli Stati Uniti; batte regolarmente, e da anni, Trump in tutti i sondaggi sulla presidenza; è l’unico in grado di mobilitare i non votanti e quelli che si dichiarano indipendenti; intorno alla sua elezione si gioca la grande partita della civilizzazione degli Stati Uniti. Quanto ai costi di una riforma sanitaria “all’europea” e della costruzione di un minimo di decente protezione sociale, basterebbe ridurre l’oltraggioso bilancio della Difesa e smettere di fare le guerre senza fine in Medioriente. Sono proposte molto popolari avanzate da Sanders, la cui adozione salverebbe tra l’altro il dollaro dal collasso per indebitamento dello Stato federale.

La vera questione, quindi, non è se Sanders ce la può fare a vincere. La domanda potrebbe riguardare, semmai, la natura dello scontro e l’esito della partita che si aprirebbe con la sua elezione. Si finirebbe con la vittoria della società e dei diritti dei cittadini contro una plutocrazia predatoria, coesa, che ha una lunga storia di violenza dietro le sue spalle? O questa macchina spoliatoria prevarrebbe immediatamente, neutralizzando o schiacciando qualunque tentativo di incivilire l’America? Meglio non correre troppo. Le lunghe marce cominciano sempre con un primo passo.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/02/20/perche-sanders-puo-vincere/5711304/

 

L’Europa per evitare il nucleare Iraniano

Il Fatto Quotidiano, 16 Gennaio 2020

Ed eccola qui la vera risposta dell’Iran all’attacco delinquenziale appena subito: l’inizio di una ritirata dall’accordo nucleare del 2015, logica conseguenza del ritiro trumpiano del 2018 e dell’inadempienza europea dei termini dell’accordo stesso. È cominciata così una grande partita, dove disinformazione e crassa ignoranza regneranno sovrane, e dove l’attore cruciale sarà, nell’immediato, l’Unione europea. Ma prima di arrivare a questo punto del discorso, è bene sfatare alcuni miti molto radicati nel circuito politico e mediatico.

A) Le bombe atomiche non sono illegali. Il tabù nucleare le ha condannate senza appello, ma è un tabù etico-politico, mai trasformatosi in un dettato giuridico vincolante. I pilastri della pace nucleare globale restano il cosiddetto equilibrio del terrore, cioè la certezza della distruzione reciproca dei contendenti della eventuale guerra atomica, e il Trattato di non proliferazione del 1970. Accordo tra i più deboli, perchè ogni suo contraente lo può abbandonare con breve preavviso e senza penali. E fabbricarsi poi tutti gli ordigni che vuole nel pieno rispetto della legalità internazionale. È ciò che ha fatto di recente la Corea del Nord, ed è ciò che l’Iran potrebbe fare se le prossime elezioni (mancano pochi mesi) consegneranno ai conservatori la prevedibile vittoria sui riformisti attualmente al governo. Non si è riusciti finora a proibire formalmente – ripeto – le armi nucleari. Solo le armi chimiche e batteriologiche sono bandite da apposite convenzioni fatte rispettare da appositi enti di controllo.

B) l’Iran è in posizione di vantaggio. Il Trattato del 2015 stabiliva che le potenze firmatarie si impegnavano a togliere tutte le sanzioni e reintegrare l’Iran nell’economia globale, soprattutto europea, in cambio della rinuncia a sviluppare il nucleare bellico fino al 2030. Impegno rispettato dall’Iran, ma non dall’Europa e dagli Usa. Trump ha stracciato l’accordo appena eletto, e ciò non sarebbe stato male se l’intero capitale finanziario occidentale non si fosse poi piegato all’imposizione americana di escludere l’Iran da ogni rapporto finanziario con il resto del mondo. Le imprese europee, italiane in testa, avevano iniziato a investire in un mercato tra più promettenti, ma hanno finito col cedere al ricatto dello Zio Sam per paura di vedersi tagliate fuori dal mercato Usa. L’Ue, a dire il vero, si è ribellata. Ha rifiutato con forza la pretesa di extraterritorialità delle sanzioni americane e ha reso illegale per le imprese europee il rispetto delle stesse. Ma sul piano delle proposte alternative l’Unione non è andata oltre la creazione di un quasi ridicolo meccanismo di baratto con l’Iran, chiamato Instex. La sua inadempienza dell’accordo è rimasta perciò intatta.

C) La palla è ora nel campo dell’Europa. Cosa può accadere? Il corso Usa e quello iraniano sono prevedibili perché largamente obbligati. Trump non può far altro che proseguire con la guerra ibrida in corso. E gli ayatollah con pieni poteri proseguiranno, come annunciato, lungo la strada del disimpegno dai patti nucleari. Con il probabile, per noi disastroso, esito di obbligare i paesi della regione, sauditi ed egiziani in primo luogo, a dotarsi anche loro della bomba.

Dopotutto, l’unica scelta razionale per proteggersi dall’attacco da parte di una potenza nucleare, è quella di farsi proteggere da una potenza analoga oppure di costruirsi il proprio ordigno. La fine di Gheddafi e di Saddam Hussein, attaccati e distrutti proprio perché non possedevano le armi nucleari e non facevano parte di alcuna Nato alternativa, continua ad ammonire tutti i governanti della regione. Ma l’Europa potrebbe stoppare la corsa verso l’abisso decidendo di rendere effettivo l’impegno contratto con l’Iran nel 2015. Basterebbe creare un fondo speciale per il finanziamento degli investimenti in Iran dotato di capitalizzazione e procedure adeguate, sulla scia di quanto abbozzato dall’Italia nel 2017, per rassicurare gli iraniani sulla volontà di rispettare l’accordo, dimostrare di non aver timore degli Stati Uniti e riprendere il processo di pacificazione commerciale e politica interrotto da Trump. Può sembrare troppo riduttivo, ma è così. Riarmo atomico e pace globale si trovano a essere appesi a una decisione di secondo ordine, perfettamente fattibile, da parte di soggetti su cui noi tutti dovremmo esercitare qualche influenza.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/01/16/leuropa-per-evitare-il-nucleare-iraniano/5673919/

 

Soleimani, è guerra ibrida tra Iran e Usa

Il Fatto Quotidiano, 4 Gennaio 2020

Stupido è chi, secondo i manuali sul tema, procura danno a se stesso oltre che agli altri. E ultra-stupido è ciò che hanno fatto gli Stati Uniti assassinando il generale Soleimani. La mossa è autolesionista non tanto perché potrebbe costare a Trump la rielezione. Ma soprattutto perché si tratta di un’azione profondamente anti-americana, in grado di accelerare di vari anni, invece di ritardare, la fase terminale del dominio Usa sul mondo. Non facciamoci ingannare dall’apparente moderazione della reazione immediata dell’Iran all’assassinio di un eroe nazionale, estremamente popolare, secondo solo al padre della patria Khomeini. Il ministro degli Esteri Zarif ha definito un atto di terrorismo internazionale quello che è a tutti gli effetti un atto di guerra, e il leader supremo Khamenei si è limitato a maledire e minacciare una generica vendetta. La scelta dell’Iran sembra essere quella di non rispondere colpo su colpo ma con una strategia calibrata, capace di sfruttare al massimo le ripercussioni interne e internazionali dell’evento sciagurato.

L’effetto interno più rilevante della bravata trumpiana sarà, in Iran, non un cambio ma un rafforzamento di regime. Ciò comporterà la fine della componente progressista, democratica e filo-europea della politica iraniana affermatasi nelle ultime elezioni. I seguaci del presidente riformista degli anni 90, Kathami, già in difficoltà, verranno definitivamente soverchiati dal blocco ultra-conservatore e nazionalista che ruota intorno alle forze armate, i pasdaran e gli ayatollah. Non ci sarà bisogno di alcun colpo di Stato, perché popolo ed élite dell’Iran seguiranno come un sol uomo chi prometterà loro di vendicare con la violenza il colpo al cuore appena ricevuto.

C’è bisogno a questo punto di ricordare che la conseguenza più certa della sconsideratezza americana sarà lo sgombero di ciò che resta del patto nucleare del 2015? Quel patto, ricordate, firmato da Obama e poi stracciato da Trump, ma mantenuto dagli altri contraenti, che posponeva di dieci anni la possibilità che l’Iran si dotasse dell’arma atomica? Il trattato stabiliva che l’Iran si sarebbe astenuto dal dotarsi della tecnologia nucleare bellica in cambio del suo reintegro nell’economia internazionale tramite la ripresa degli scambi e degli investimenti con i Paesi Ue, e in primo luogo con l’Italia. Un canale di amicizia e di cooperazione tra Iran ed Europa che si chiuderà presto.

Dopo Soleimani, l’Iran seppellirà ciò che rimane di quell’accordo e si incamminerà molto probabilmente anche sulla strada dell’uscita dal Tnp, il Trattato di non proliferazione del 1970. Uscita che spingerà tutti i Paesi della regione a fare altrettanto. Distruggendo il tabù nucleare che regge la pace mondiale da 70 anni e riempiendo il Medioriente di bombe atomiche. Ci sono poi da valutare i danni della reintroduzione dell’assassinio politico palese, e al massimo livello, come strumento accettabile delle relazioni internazionali, anche di quelle ostili. Per adesso, sono solo gli Usa ad avere avanzato la candidatura a suprema autorità immorale in questo campo, ma cosa potrà impedire ad altri, dopo ciò che è accaduto, di seguirne il luminoso esempio? Cosa saranno autorizzati a fare i “cattivi” al vertice delle potenze cattive, limitatisi finora a praticare l’eliminazione fisica dei nemici nei ranghi medio-bassi e in modo coperto? Lo scarso entusiasmo di Netanyahu alla notizia dell’uccisione di Soleimani forse può significare qualcosa in merito.

L’unica nota debolmente positiva del dopo Soleimani è che entrambe le parti sembrano propendere verso uno scontro di tipo ibrido invece che verso una guerra convenzionale o nucleare. La guerra atomica è da escludere perché l’Iran non ha la bomba, per il momento, e non è legato da alcun trattato di difesa con una potenza nucleare. La guerra convenzionale non è probabile perché sia gli Stati Uniti che l’Iran ne hanno ripetutamente scartato la possibilità. E le guerre non scoppiano per caso. Occorre che almeno una delle due parti persegua fervidamente l’opzione armata. Il Pentagono, in particolare, non vuole una nuova guerra perché sa di correre un alto rischio di perderla, al pari di tutte quelle che ha fatto dopo la Seconda guerra mondiale. Ma una guerra ibrida ad alta intensità come quella appena iniziata può essere altrettanto disastrosa di un confronto con navi e cannoni. Sanzioni estreme, blocchi marittimi e finanziari, terrorismo di Stato e bombardamenti incapacitanti di infrastrutture cruciali per la vita associata sono purtroppo da mettere in conto. Assieme a un nuovo choc petrolifero e conseguente recessione mondiale. La palla, purtroppo, è quasi solo nel campo americano, dato l’obbligo per l’Iran di usare tutti i mezzi al di qua della guerra aperta, e data la prevedibile risposta inconcludente dell’Europa e del resto del mondo.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/01/04/soleimani-e-guerra-ibrida-tra-iran-e-usa/5650471/

 

L’oppio afghano ha sconfitto l’Onu

Il Fatto Quotidiano, 17 Dicembre 2019

Le Nazioni Unite avrebbero riattivato una grande fabbrica di cotone ferma da qualche anno per mancanza di elettricità e i talebani avrebbero proibito la coltivazione del papavero

La guerra in Afghanistan è stata un fallimento a tutto campo: militare, politico, umanitario e finanziario. Ma si ostina a non terminare nell’unico modo in cui può cessare: un accordo di pace che apra la strada alla ricostruzione del Paese più tormentato della terra. È in corso a Doha una trattativa tra il governo americano e i Talebani che dovrebbe portare al ritiro delle truppe di occupazione in cambio della rinuncia al sostegno del terrorismo nel quadro di un governo di unità nazionale che indichi elezioni democratiche e stabilizzi il Paese. Tutto qui. Nessun accenno ad altre questioni, tra cui la produzione dell’ oppio.

È la quinta o la sesta volta in diciannove anni che ci si siede a un tavolo di negoziato sull’Afghanistan. Le trattative precedenti sono fallite a causa dell’incapacità americana di accettare la sconfitta e di lasciare liberi gli afghani di decidere il proprio destino. Ma a ogni tornata, la forza negoziale dei Talebani è cresciuta e ora siamo al punto che agli Stati Uniti non resta che la richiesta di salvare la faccia, andandosene dal Paese senza una contropartita significativa, perché i Talebani poco o nulla hanno a che fare con il terrorismo internazionale.

Ben diverse erano le condizioni poste dalle Nazioni Unite per una rinuncia dei Talebani alle violazioni dei diritti umani e un loro rientro nella legalità internazionale già nel 1997, data della mia prima missione in Afghanistan come Vicesegretario Generale e Direttore del Programma antidroga dell’Onu. Gli studenti del Corano erano un movimento di ultra-moralizzatori islamici, nato dalle viscere profonde di un paese semidistrutto da decenni di violenza e di caos. Controllavano l’ 80% del territorio e tassavano le coltivazioni di oppio facendo finta che l’Islam le consentisse. Sotto di loro, l’Afghanistan era balzato al primo posto nella lista dei fornitori mondiali, alimentando quasi l’intero mercato europeo dell’eroina. Perché non provare a chiudere il rubinetto all’origine, dove con poche decine di milioni di euro da destinare alla riconversione delle miserabili economie locali si poteva disseccare il fiume dei 20 miliardi di fatturato criminale generato dal mezzo milione di consumatori europei? Kofi Annan mi autorizzò, prefigurando una trattativa sulla droga e sui diritti delle donne che sarebbe sfociata nel percorso verso un governo semi-decente, da far riconoscere alla comunità internazionale.

Lo zar antidroga di Clinton, un generale digiuno di politica, appoggiò l’iniziativa senza riserve, dato il momentaneo vuoto delle politiche americane nella regione. Solo il governo britannico si oppose, in nome di un patetico “diritto di zona di influenza” sull’Afghanistan – un paese dove gli inglesi, come feci notare all’ambasciatore di sua Maestà la Regina, avevano perso tre guerre. Feci confezionare una proposta di eliminazione totale delle coltivazioni illecite in 10 anni tramite sviluppo alternativo: il prezzo dell’oppio pagato allora ai coltivatori afghani era così irrisorio che l’importo totale era di soli 250 milioni di dollari. E non fu difficile perciò ottenere impegni di sostegno finanziario dai donatori del Programma.

Arrivai a Kandahar, la capitale talebana, nel novembre 1997 preceduto dalla BBC di lingua pashtun che aveva anticipato la mia proposta. Mi trovai di fronte il primo ministro talebano, Rabbani, che mi disse subito di accettare i contenuti del negoziato ma di dissentire sulla tempistica: perché volevo aspettare 10 anni quando – a fronte di un pagamento di 250 milioni di dollari – loro erano in grado di azzerare subito, nell’arco di un solo anno, l’intera produzione del papavero? Superato il brivido iniziale, gli spiegai che non viaggiavo con i forzieri di Alì Babà al mio seguito, e che la pessima reputazione internazionale che si erano creati con il loro modo di trattare le donne mi avrebbe precluso qualsiasi finanziamento. Se volevano l’ aiuto estero, dovevano dimostrare di cambiare. Arrivammo a un compromesso secondo il quale si sarebbe fatto un esperimento di cooperazione nella zona di Kandahar: l’Onu avrebbe riattivato una grande fabbrica di cotone ferma da qualche anno per mancanza di energia elettrica, e il governo locale avrebbe proibito la coltivazione del papavero in tutto il distretto offrendo ai contadini soluzioni alternative, tra cui l’ impiego nella fabbrica stessa. Dove avrebbero lavorato tutte le donne che era necessario impiegare. Nel frattempo, il governo centrale avrebbe cominciato a dismettere le vessazioni più odiose contro le donne e fatto rispettare la proibizione di coltivare il papavero, appena definito come pianta “intossicante” dai teologi islamici da noi consultati (e finanziati).

L’accordo locale non funzionò perché un investitore straniero residente sul posto fiutò l’affare della fabbrica e l’acquistò escludendoci dalla scena. Lasciammo perdere la cosa, non perché l’investitore si chiamasse Bin Laden, ma perché si erano aperte altre prospettive di negoziato, su cui il governo di Kabul mostrava una certa flessibilità. Ma i tempi cambiarono nel 1999-2000. Gli Stati Uniti decisero di porre fine al loro flirt con gli eredi dei mujaheddin, e con il consenso dei russi promossero due tornate di sanzioni anti-talebani del Consiglio di Sicurezza. Noi del segretariato Onu non ci opponemmo perché volevamo aumentare la pressione sui Talebani ed eravamo irritati con loro perché avevano scoperto la geopolitica ed avevano iniziato qualche giochetto con i Paesi confinanti per sottrarsi alle nostre determinazioni. La svolta arrivò nel’ estate del 2001. Messi all’angolo dall’Onu e anche dai Paesi amici, i Talebani decisero, su nostra spinta, di far valere il divieto di coltivazione del papavero in ogni angolo dell’Afghanistan sotto il loro controllo. Nella sorpresa generale, l’interdizione funzionò: la superficie coltivata a papavero passò da 74mila ettari nel 2000 a zero nel 2001: era così dimostrato che è possibile azzerare la produzione di droga. Nel mese di agosto fui contattato dal nuovo capo talebano: avevano bisogno urgente di almeno 50 milioni di dollari per consolidare lo storico risultato.

Gli feci presente che era troppo tardi. Stavo per lasciare l’Onu perché con l’arrivo di Bush e Berlusconi in quell’anno avevo perso il sostegno politico necessario per ottenere un secondo mandato. E loro erano ormai nel mirino dell’America incattivita dei neocon. Due mesi dopo, infatti, la vendetta post 11 Settembre, invece di colpire la matrice saudita degli attentati, si rovesciò proprio su di loro, i Talebani, l’anello debole del radicalismo islamico. Come poi abbiano fatto i Talebani a risorgere più forti di prima nei decenni successivi, è cosa che solo le politiche americane in Afghanistan possono spiegare.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2019/12/17/loppio-afghano-ha-sconfitto-lonu/5621493/

 

Immigrazione non fa rima con delinquenza

Il Fatto Quotidiano, 28 Novembre 2019

Circa 30 anni fa, in Italia, è iniziato lo spettacolare declino della criminalità violenta e il simmetrico incremento della sicurezza individuale. I tassi di omicidio, cioè l’indicatore più attendibile del livello complessivo dei reati, si sono ridotti dell’83% dal 1991 al 2018: da 1916 a 331 casi all’anno. Sono 0,55 morti per 100 mila abitanti. Un tasso tra i più bassi del mondo. Reati gravissimi come i sequestri di persona sono scomparsi da oltre un decennio, e tutto il resto della delinquenza privata, dai furti (-40%) alle rapine (-53%), è anch’esso fortemente diminuito. La violenza mafiosa è crollata a un punto tale da configurare una svolta di proporzioni storiche: 856 omicidi di mafia nel 1988-92 contro 15 nel 2013-17. Come se non bastasse, la débâcle criminale è avvenuta in contemporanea a una colossale ondata migratoria che ha scosso dalle fondamenta la società italiana. I reati gravi hanno cominciato a diminuire proprio mentre la popolazione nata all’estero iniziava una crescita di quasi venti volte.

Secondo le teorie sociologiche correnti, questo esercito di giovani maschi, candidati naturali al disadattamento e alla protesta violenta, avrebbe dovuto far impennare tutti gli indici della delinquenza. Queste teorie si basano su quanto è in effetti accaduto negli Stati Uniti tra l’Ottocento e il Novecento quando il crimine organizzato era un valido strumento di ascesa sociale per generazioni di giovani immigrati che si trovavano sbarrate le strade normali di avanzamento. Questo processo si è però interrotto negli anni Novanta del secolo scorso. Gli Usa hanno sperimentato un’“invasione” di immigrati del tutto simile a quello dell’Italia e dell’Europa, e anche lì la criminalità violenta è scesa invece di aumentare. È una semplice coincidenza?

I sociologi americani hanno affrontato il tema e trovato una risposta radicalmente controcorrente: la recente immigrazione ha attivamente contribuito alla flessione della criminalità. Secondo i ricercatori di Harvard, la variabile cruciale è il profilo socioculturale dei nuovi migranti: si tratta di gente “mite”, che proviene da ambienti dominati da valori familistici, comunitari, osservanti delle leggi. Chi proviene da questi luoghi non prende in considerazione l’illegalità e il mercato criminale come mezzi per farsi strada nella giungla della società di arrivo. Gli studi di Harvard sono stati confermati da varie altre indagini universitarie. Non abbiamo ricerche equivalenti in Italia. Ma ci sono elementi molto evidenti da considerare, il primo dei quali è simile alla variabile individuata negli Stati Uniti: molto spesso i giovani immigrati in Italia sono vittime delle mafie e delle clientele politiche dei Paesi di origine.

Un secondo fattore è la dispersione territoriale degli immigrati. Non si sono formati da noi quei vasti ghetti di giovani disperati, discriminati e sottoccupati, che popolano le periferie di Londra o Parigi. Gli immigrati in Italia mostrano buoni tassi di occupazione e nutrono, secondo le indagini disponibili, atteggiamenti non ostili verso la società ospite. E tutto ciò ci ha protetto anche dagli attentati terroristici. C’è poi da mettere in campo l’efficienza delle forze dell’ordine italiane che preclude agli stranieri l’accesso alle vette della piramide illegale. Ciò spiega perché i vuoti che le campagne antimafia hanno creato dagli anni 90 in poi nei piani alti della delinquenza non sono stati riempiti da cartelli mafiosi albanesi, rumeni o marocchini ma da gruppi e generazioni di autoctoni.

Quanto detto non è sufficiente a provare un rapporto di causa-effetto tra immigrazione e declino della criminalità. Ma si può tranquillamente affermare, in ogni caso, che l’“invasione” migratoria recente non ha affatto stimolato la violenza criminale, e che esistono indizi, semmai, di una sua possibile, indiretta, influenza deflattiva.

lfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2019/11/28/immigrazione-non-fa-rima-con-delinquenza/5583972/

 


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