Arlacchi a Panorama: "Il processo sulla trattativa tra Stato e Cosa nostra è una bufala"

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Panorama, 24 feb. 2014

Intervista a Pino Arlacchi di Anna Germoni

«Il processo Stato-mafia si concluderà con il totale flop dell’inchiesta di Antonio Ingroia & soci. È una bufala su cui si sono costruite carriere immeritate: non c’è una sola prova seria a sostegno di questa allucinazione». A stroncare la madre di tutte le inchieste, quella che a Palermo ipotizza una trattativa per bloccare le stragi di mafia dopo il 1992-93, è Pino Arlacchi, tra i massimi esperti internazionali di criminalità organizzata. Nessuno può sospettarlo di ambiguità o cedimenti, la storia di Arlacchi parla per lui. Parlamentare europeo del Pd e in passato deputato del Pds, nonché vicepresidente dell’Antimafia e grande amico di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, Arlacchi ha vissuto per 13 anni sotto scorta da quando, il 25 maggio 1994 nell’aula del tribunale di Reggio Calabria, Totò Riina lanciò un anatema contro «la combriccola dei comunisti» e fece i nomi dei suoi tre principali nemici: Luciano Violante, all’epoca presidente della commissione antimafia; Gian Carlo Caselli, che era procuratore capo di Palermo; e «quell’Arlacchi che scrive libri». Tommaso Buscetta, il primo grande pentito di mafia, disse subito: «Queste sono condanne di morte».

La critica di Arlacchi, oggi si affianca a quella, letteralmente demolitrice, di altri due uomini di sinistra: il giurista Giovanni Fiandaca e lo storico Salvatore Lupo, che nel libro La mafia non ha vinto non trovano alcun illecito nella presunta trattativa Stato-mafia. In questa intervista esclusiva a Panorama, al motto «rottamiamo una certa idea della mafia», lo studioso non risparmia critiche a chi, in nome della lotta alla mafia, «ha voluto costruirsi una carriera».
Perché l’inchiesta Stato-mafia è un errore?
È basata su un’ipotesi grottesca: una connection tra Oscar Luigi Scalfaro, Carlo Azeglio Ciampi, Giovanni Conso e Nicola Mancino da un lato, e i vertici corleonesi di Cosa nostra dall´altro. Il tutto attraverso il Ros, il Raggruppamento operativo speciale dei carabinieri, e i servizi segreti, che negoziano un armistizio; e alle spalle di due eroi sprovveduti come Falcone e Borsellino, che continuano a combattere senza rendersi conto di essere già morti.

E questa è l’«allucinazione» di cui lei parla?
Sì. Un’allucinazione. E non c´è una sola prova seria a sostegno. Ci sono solo le vanterie di un killer, Gaspare Spatuzza, che in quanto tale non poteva sedere al tavolo dei «negoziati» e che parla per sentito dire; più le bufale di un calunniatore patentato come Massimo Ciancimino. Mi vanto di essere stato il primo a denunciare le panzane di questo personaggio, esaltato oltre il lecito e trasformato in un’icona dell´antimafia dai megafoni della Procura di Palermo.
Le vittime di questa «bufala» sono tante.
Mi amareggia assai il fango gettato su persone perbene come Mancino e Conso, accusati senza il più piccolo indizio o prova di avere tradito il loro mandato. Mancino è stato un ministro dell´Interno inflessibile e coraggioso contro Cosa nostra. Conso è un insigne giurista, mai sfiorato da un sospetto di collusione o cedimento a interessi illeciti.

L’inchiesta Stato-mafia si basa sui pentiti. Ma quasi sempre in tribunale si contraddicono. Poi c’è il caso del falso pentito Vincenzo Scarantino, in gennaio ospite in tv da Michele Santoro e arrestato a fine puntata: era l’oracolo di alcuni pm della procura di Caltanissetta: ma con le sue menzogne ha mandato in carcere per 17 anni sette innocenti. C’è un cortocircuito nelle inchieste che certifica la loro credibilità, o non ci sono più i pentiti d’onore?
Non esistono pentiti senza magistrati. Le discussioni sui pentiti sono in realtà discussioni sui magistrati. Se scade la professionalità degli inquirenti, scade il valore della risorsa «pentito». Se il collaboratore di giustizia diventa o no determinante in un caso giudiziario dipende dal pm che lo ha in carico. Se l'inquirente è capace di trovare i riscontri giusti alle dichiarazioni di un collaboratore, ed è poi anche capace di gestire il caso che ne consegue, la giustizia ha fatto bingo. È questo il caso della coppia Falcone-Buscetta, che ha prodotto il maxiprocesso del 1987, cioè l'inizio della fine della mafia siciliana.
Il pentito falso o manipolatore, invece?
Quello è l'inizio della fine della giustizia. È lui che conduce gli inquirenti dove vuole. Oppure dice ciò che i pm vogliono sentire, lanciando accuse senza fondamento, confidando nel fatto che non si farà alcuna verifica seria fino al dibattimento in aula. Nel frattempo, i bersagli designati saranno già stati distrutti dalla canea mediatica alimentata dalle carte e dalle notizie fornite illegalmente ai cronisti giudiziari dei maggiori quotidiani.
Non è stato sempre così.
No. Basta ricordare il caso di Giuseppe Pellegriti, un mafiosetto da strapazzo che tentò di dire a Falcone ciò che molti volevano fosse detto a proposito di Salvo Lima, e si beccò un'incriminazione per calunnia (dallo stesso Falconem nell'agosto 1989. ndr) perché aveva inventato tutto. Oggi i suoi verbali sarebbero sui giornali del mattino dopo, verrebbe invitato da Michele Santoro e darebbe lezioni di antimafia.
Antonino Di Matteo, pm di punta dell’inchiesta Stato-mafia, in un’intervista a Skytg24 ha detto: «C’è l’intenzione del Riina di portare all’esterno una volontà omicidiaria e stragista nei confronti dei magistrati di Palermo». Lei quasi vent’anni fa, era stato condannato a morte, proprio dal Riina in aula giudiziaria. Che cosa ne pensa?
Rottamiamo una certa idea della mafia. Riina è un capomafia di 84 anni, in galera da 21, solo e abbandonato secondo tradizione mafiosa. È stato intercettato nel giugno 2013 mentre si sfoga contro tutto e tutti: da Silvio Berlusconi ai pubblici ministeri, fino a quelli che dovrebbero essere i suoi più stretti sodali. La credibilità delle sue farneticazioni è zero.
Sempre il pm Di Matteo ha dichiarato un fatto sconcertante: da intercettazioni ambientali risulterebbe che Riina, arrestato il 15 gennaio 1993, fino al 2005-2006 era considerato ancora il vero capo dai suoi sodali in libertà…
Di Matteo dice che le ultime notizie su un ruolo importante di Riina dentro Cosa nostra risalgono ad almeno 4 o 5 anni fa, e si riferiscono a situazioni di una ventina di anni prima. Ma il circo mediatico-giudiziario italiano omette le date e si ostina a tenere in piedi l´immagine di una Cosa nostra che non esiste più e di una leadership di Riina altrettanto inesistente.
È possibile una ripresa dello stragismo mafioso, come molti magistrati e suoi colleghi europarlamentari sostengono?
No, non siamo alla vigilia dell´Apocalisse. La ripresa della strategia stragista e la resurrezione della mafia del tempo che fu sono da escludere. Non ci sono stati né attentati né stragi dopo gli sproloqui di Riina del giugno passato, e non ce ne saranno nel futuro immediato. Per fortuna. Mi dispiace per gli ammalati di protagonismo e per i venditori di paura, ma oggi gli apparati della sicurezza non sottovalutano più gli elementi di rischio. Gli investigatori sotto tiro vengono ben protetti, e la mafia non ha più la forza militare, logistica e politica per sfidare frontalmente lo stato. Meglio eroderlo dall´interno.
Ma Cosa nostra è potente come nel 1993?
Cosa nostra di Riina è stata fatta a pezzi dal maxiprocesso del 1987 e dalle indagini di Rocco Chinnici,Falcone, Borsellino, Antonino Caponnetto. Il culmine dello scontro è avvenuto nel biennio 1992-93, il «biennio magico» secondo Gian Carlo Caselli, che ci ha portato il sacrificio di Falcone e Borsellino, è vero, ma anche la sconfitta della strategia stragista della mafia. Nella prima metà degli anni Novanta siamo andati molto vicini alla distruzione della mafia, ma all'ultimo minuto non siamo riusciti a darle il colpo di grazia.
Dopo quel periodo come è sopravvissuta Cosa nostra?
Dopo il 1993 ha adottato una strategia di sopravvivenza, che prosegue tuttora, basata su un uso minimo della violenza e sull´intensificazione dei rapporti con la politica corrotta e con la criminalità economica e finanziaria. Strategia coerente con quella adottata da tutti i grandi gruppi criminali in Russia, nel Kosovo, in Colombia, nel Medio Oriente e in Asia. Meno violenza, più affari e più diversificazione dei mercati: meno droga, più appalti,contraffazione, false fatture, truffe.
E come si può debellarla?
Si parla pochissimo, e si indaga troppo poco, sulla realtà criminale di oggi. Dei suoi legami coperti con la politica e con il mondo della spesa pubblica. Se fossi il direttore di un giornale manderei in pensione i cronisti giudiziari storici. Gente che vive in un mondo che non esiste più e sa parlare solo di fatti di venti o trenta anni fa e di personaggi che sono morti, in galera o incapacitati ad agire. Lo stereotipo mediatico-giudiziario sulle mafie italiane è vecchio di 30 anni. È tempo di rottamare anche qui.
 

 

 

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